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La tigre di Sartre a Baghdad, Barbareschi apre una stagione eccezionale all’Eliseo

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«Dio è il Silenzio, Dio è l’Assenza, Dio è la Solitudine degli uomini». Scriveva Jean-Paul-Charles-Aymard Sartre  in “Il Diavolo e il buon Dio”. Lo sa bene la tigre, Luca Barbareschi, de “Una tigre del Bengala allo zoo di Baghdad”. Spettacolo di apertura della stagione dell’Eliseo, andato in scena il 29 settembre, in cartellone fino all’11 ottobre.

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Non uno, ma più spettri si aggirano per le strade della capitale irachena tramortita dalla guerra, stanchi, tutto è sventrato dai colpi dell’artiglieria. Pure per le anime non c’è salvezza. La città è sotto il controllo dei marines, almeno una parte. Soldati che, certamente, non sono l’exemplum della stabilità mentale.

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Ma, in fondo, nella piece di Rajiv Joseph niente è stabile. L’odio tiene in piedi tutto il programma di restaurazione di un caos primordiale. L’odio mira a trovare una libertà senza limiti di fatto, «a sbarazzarsi del proprio impercettibile essere-oggetti-per-l’altro e abolire la propria dimensione di alienazione». L’odio vuole rendere liberi. La tigre, i soldati, l’interprete sono pedine caotiche di un sistema che fa scivolare lo spettatore dentro un paradigma teatrale, non più dentro uno spettacolo. “Una tigre” serve a far avere la riprova a tutti che odiare significa «proporsi di realizzare un mondo in cui l’altro non esiste». Neppure Dio, che poteva fare da interprete fra gli uomini, ma che finisce per prendere parte a una guerra senza parti.TEATRO-ELISEO_UnaTigreDelBengala_gallery-6

Non c’è solo odio. L’opera di Joseph è un inno schopenaueriano al nihilismo. Niente conta, conta esclusivamente il nutrimento, un nutrimento di sabbia, carnale, spinto fino al parossismo. Dai soldati ingordi d’oro, alla ragazza affamata che si vende. Conta il sesso, un sesso rubato dietro un pagamento per una prestazione comica, che non ha nulla di illecito, tutt’al più qualcosa di ironico.

Se fino a prima di uscire dallo spettacolo si pensava che l’eternità potesse rappresentare una porta di fuga, una fonte di inesauribile piacere, la conclusione che se ne trae è che la defezione dall’esserci conclude un quid e conduce solo verso un nuovo percorso orizzontale fatto di conoscenza e insoddisfazione. Desiderare l’immortalità è desiderare la perpetuazione in eterno di un grande errore.

Niente, non c’è nulla che non induca a pensare che l’agire, dopo lo spettacolo, sia solo inutile. La condizione di essere uomo, un continuo sfoggiare estetismi vari pur di nascondere l’istinto, ci spinge solamente a raccogliere una messe di menzogne. «Dio non pensa – scriveva Søren Kierkegaard -, Egli crea; Dio non esiste, Egli è eterno. L’uomo pensa ed esiste e l’esistenza separa pensiero ed essere, li distanzia l’uno dall’altro nella successione». Ma per Kierkegaard uno scampo c’era. Qui no.

La tigre affamata, la bambina sventrata, il giardiniere-dio-inteprete, la sorella stuprata e seviziata, sono tutti trabocchetti; giochi visivi che rimandano a un “indietro”, un “tempo che c’era” e che non viene più. A un labirinto do Borges. Il tempo nel quale si immerge il giardiniere afflitto, che sembra un palliativo. Il tempo che non si ammazza mai, ma che invece ammazza noi.

L’interpretazione di ogni singolo attore, da Barbareschi, maestro sinfonico di una comicità nichilista, che interpreta una grammatica cinica ma educata, a Marouane Zotti, Hossein Taheri, Andrea Bosca è stata capace di individuare un segmento di dialogo con il pubblico: la critica esistenziale. Non solo, quindi, una prospettiva panoramica sul disagio, ma una indagine dinamica e fluida sul perché. Ecco, questi e molti altri ancora, sono solo alcuni dei motivi per cui “Una tigre del Bengala allo zoo di Baghdad” va visto e rivisto ancora.