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“Alàs poor Yorik”, il successo meritato di Daniele Pecci al Quirino con il suo Amleto

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In scena al Quirino di Roma, fino al 30 ottobre, l’Amleto di Daniele Pecci ha riscosso un più che meritato successo il giorno della prima.

In un scenografia scarna, evocativa, senza inutili deviazionismi descrittivi, la storia del principe di Danimarca è stata resa accessibile al grande pubblico, che ha saputo apprezzare lo sforzo collettivo della Compagnia Moliere.

La pièce è stata quasi perfetta. E le piccole imperfezioni, proprio in un panorama di tale bellezza, emergono ancora più nitide. E sono un peccato.

Prendiamo ad esempio la scelta di non puntare più sulle frasi a sicuro effetto, come “something is rotten in Denmark”. La volontà del regista di superare alcuni clichè scespiriani era chiara, però alcune battute hanno superato la semplice fama aforismatica per diventare quasi archetipe. E sottolinearle non è un lato commerciale, ma clarificatorio.

Stesso problema per il “parole, parole, parole” di Amleto a Polonio. Tutta la drammaturgia di Shakespeare sulla storia di Amleto è un dramma sulle parole, sul ruolo purificatore e ingannatore che esse hanno, ecco, far scivolare via dalla bocca del buon principe il tema centrale dell’opera senza puntarci sopra è sembrato un peccato. Reso ancora più smisurato dalla bellezza del tutto da dove questa scelta è emersa.

Lasciano colpiti alcuni tagli che rendono difficile la comprensione dello svolgimento. Tagliare le parole de Re Amleto alla sua apparizione durante il colloquio di Amleto e Gertrude non crea problemi. Ma togliere il momento in cui Amleto dichiara ai compagni di veglia che da quel momento in poi fingerà la pazzia, questo è più difficile da capire.

Peccato aver tolto la figura di Fortebraccio. E relativo dialogo. Secondo una buona rilettura scespiriana, come quella di Jan Kott, è proprio questo uno dei personaggi chiavi di tutta la tragedia. L’alter ego politico e morale di Amleto.

Gli attori sono stati tutti perfetti. Alcuni emergono titanicamente sugli altri. In primis, Gertrude Maddalena Crippa. Una madre sinceramente addolorata. Colpita nel profondo affetto e nella psiche anche. Mente che viene turbata dalle accuse violente di un figlio infuriato. Una Crippa che riesce anche, con una padronanza della voce meritoria, a cambiare e mutare e dominare il tono della voce per portarlo a un monocromatico epitaffio di dolore, dopo l’ultima esplosione di rabbia che annienta la personalità della regina.

Amleto, Daniele Pecci, prende su di sé la figura del principe e la rende contemporanea. Ha saputo dare prova di un Amleto lontano dalle corti imbalsamate degli Olivier, ed è stato in grado di far emergere il lato sbruffone e spaccone del ragazzo.

Ma è tutta la compagnia a essere stata brava. Perché uno spettacolo può riuscire bene, ma è perfetto solamente se tutti gli elementi dell’ingranaggio sono al loro posto. E così è stato.

Infine, ammirevole la decisione di non tagliare, finalmente, la scena dei becchini e del “Alàs, poor Yorik”. Una scena che vale più di mille “essere o non essere”. Forse il vero cuore di tutto l’Amleto, finalmente reso disponibile al pubblico romano.