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Turandot alle Terme di Caracalla, una prospettiva sulla barbarie dell’amore

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Una Turandot complicata. Una Turandot vendicativa. Una Turandot bellissima quella in cartellone alle Terme di Caracalla fino all’8 agosto. L’opera di Giacomo Puccini, messa in scena con la regia, le scene e le luci di Denis Krief.
La proposta di vedere una Cina anni ’80, costruita sui ricordi di un viaggio personale del regista in una chiave di lettura comunista, ha condotto lo spettatore dentro una fantasia immobile. È una Cina chiusa, letteralmente ingessata dentro un mondo che si è staccato dalla realtà. Un mondo di fantasia, di onirismo, dove Turandot regna sovrana. Un mondo dove gli oggetti si muovono solamente in verticale.
Turandot è una principessa che non vuole letteralmente crescere, come sostiene Krief. Questo il motivo delle bamboline che Ping Pong e Pang mettono in scena. I tre mandarini, Igor Gnidii, Massimiliano Chiarolla e Gianluca Floris, hanno condiviso con il pubblico i loro sogni di libertà ma anche la loro ipertrofica sottomissione a una burocrazia che incombe anche sul desiderio.
Sono state tre macchiette comiche. Cantanti attori, perfettamente in grado di strappare un sorriso con un cantato, ma anche con un movimento del corpo.
La letteratura pucciniana ha battuto molto il tasto sul grado iniziatico dell’opera, come per “Il Flauto Magico” di Mozart e altre opere che hanno nel motivo dell’iniziazione una chiave di lettura fondamentale, ma la proposta di Krief ha spostato l’accento: da Kalaf alla psiche di Turandot. Ed è una proposta azzeccata. La storia della genesi dell’opera stessa suggerisce una lettura a più strati: lavoro nato dopo lo stralcio di uno “Sky” tratto da Shakespeare e un “Oliver Twist”, sottoposta a notevoli variazioni rispetto alla versione di Gozzi, sia dal punto di vista dei personaggi, sia nell’introduzione di Liù, tenendo presente lo sviluppo delle figure dei tre mandarini. Tutto in quest’opera può essere variamente inteso.
Quanto di vero c’è nella frase di Jung: «La nostra psiche è costituita in armonia con la struttura dell’universo», scritta nel ’28 in “Io e inconscio”, lo vediamo “emergere” qua. La psicologia di Turandot abbraccia un meccanismo ferreo che potrebbe essere una forma archetipica di questa contemporaneità. Dove la dinamica della sopraffazione rappresenta la sola logica che sottende ogni grammatica, da quella lavorativa a quella emozionale.
La bacchetta di Juraj Valcuha ha diretto maestosamente l’opera. Non si può nascondere una certa predilezione verso l’orchestra questa volta, come se a Caracalla fosse lei la vera Prima Donna. L’orchestra che ha svelato i segreti di una partitura complessa e delicata, che, come solo Puccini è in grado di fare, ha ammansito l’animo degli spettatori anche nei momenti più difficili, come la morte di Liù. Un’orchestra molto amata da Puccini che in questo momento la usa anche in tono sia barbaro sia amorevole.
Catene di bicordi e accordi paralleli si sprecano e l’uso di percussioni e idiofoni, in un tessuto ritmico governato da figure ostinato, ha permesso a Puccini di ottenere i passaggi più barbarici; l’autore non fu parco nel loro uso anche per ottenere effetti “speciali”, come la gran cassa che scandisce il racconto straziante di Timur al figlio, che dipinge quasi una sorta di panorama leggendario. Puccini diede tutto se stesso nell’orchestrazione di questo lavoro, a tal punto da cimentarsi nella difficile pratica della eterofonia: l’esecuzione simultanea di diverse varianti di una stessa linea melodica. Basti pensare al III atto, quando Ping Pong e Pang offrono le odalische a Calaf.
E’ una Liù eccezionale. È chiaramente lei che regge il sistema di tutta la trama. Una Pechino fatiscente che muore sotto o colpi dell’odio di Turandot non basterebbe a rendere onore alla grazia di questa opera pucciniana. È lei, il legame tra il mondo della razionalità e quello dell’irrazionale. Maria Katzarava è stata una Liù degna di essere ricordata. Con la sua voce ha fatto inchinare verso il palco tutto il pubblico. Irène Theorin, la meravigliosa Turandot lascia senza parole. Il controllo della voce celebra la sua maestria.
Stessa cosa non si può dire di Kalaf, Jorge de Leon. Un maestro nella recitazione di un personaggio così wertheriano, fatto di eccessi e nessuna mezza misura, ma che però non ha brillato come potenza vocale. Il “Vincerò” non ha fatto vibrare le corde dell’anima del pubblico, come invece ci si aspetterebbe da un Kalaf pazzo d’amore.