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Un d’Annunzio erotico e drammatico. Ancora troppi i pregiudizi sul Vate

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Cosa avrebbero detto le Clarisse del Vittoriale e il Padre Priore della mise en scene, in scena al Quirino dall’11 ottobre fino al 16 ottobre, su d’Annunzio

Sicuramente qualcosa avrebbero avuto da ridire. A cominciare da Amelie Mazoyer, la parigina di Montmartre al servizio del poeta dai tempi di Arcachon. Ma ancora di più avrebbe avuto ancora qualcosa di ridire la povera Luisa Baccara-Rosafosca-Smikra. Fatta passare per una spia di Mussolini. Una delle tante teorie. Una spia che, a noi piace pensarla come Paola Sorge, lo ha fatto però per amore. Amore di un poeta che si andava distruggendo.

Ma avrebbe avuto sicuro da dire qualcosa anche il povero Padre Priore: Gabriele D’Annunzio.

Di Angelo Crespi avevamo già visto “Nerone”, sempre al Quirino. Una pièce tratta da un libro di Massimo Fini, che aveva lasciato dietro di sé più domande che altro.

Per scrivere di d’Annunzio non è sufficiente avvicinarsi all’opera omnia del poeta, raccogliere qualche frase strappata dalle note che il Vate spediva a Suor Albina, o pretendere di costruire dei dialoghi incerti usando frasi aforismatiche che nulla hanno a che fare con un dialogo fluido.

Ariel viene dipinto come il mito di se stesso. O semplicemente le citazioni sono andate troppo in là.

Lascia onestamente senza parole la traballante apertura de “La pioggia nel pineto” introdotta per sedare un diverbio, con un “taci” lanciato là senza arte ne parte. Gli accenti musicali sono appiccicati con forza sulla poesia, tanto che si è costretti a uno scivolone terribile su “croscìo”, letto “croscio” per restare sul pezzo.

La regia di Francesco Sala traluce un moto di dispetto verso la grandezza di un poeta che non si è voluto studiare ma solo mimare. Quale sarebbe il senso, se non di algida indicazione di un lento decadimento schizoide, di dare l’immagine di un Poeta che agita un bandiera tricolore vaneggiando di legionari scambiati per avanguardisti, scambiando Regime e ONB con i legionari. Ancora più incerta è la decisione di concludere lo spettacolo con il poeta che fende l’aria con un fioretto, scrivendo i propri aforismi più famosi. D’Annunzio prima piange poi colpisce l’aria? 

A prima vista sembra quasi una parodia il modo di recitare il poeta. Così curvo, piegato su se stesso, quasi come la figura di un satiro rinascimentale che traluce desiderio mal sopito; proprio come “Venere e Amore spiati da un satiro” di Correggio.

Ma davvero il Vate viene visto ancora così? Davvero il Poeta è solo lussuria? No, decisamente no. E non solo i libri della Sorge a svelarcelo. È anche il buon senso. È anche il buon gusto.

Interessante la scelta wagneriana della musica di apertura. A la Gian Marco Montesano. 

Gli attori fanno quello che possono. Encomiabile la somiglianza di Edoardo Sylos Labini. Anche grazie al lavoro sui costumi, eccellente in verità, di Marta Crisolini Malatesta. Incredibilmente vera la Duse-Viola Pornaro, che stacca tutti durante le prove de “La Città Morta”.

Se si voleva dare una prova di quanto ancora ci sia da lavorare per allontanare il Poeta dal pregiudizio e dargli una sostanza, ci si è riusciti. Se si voleva essere onesti e provare a mettere in scena il Poeta d’Italia c’è ancora strada da fare.