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Marco Puca: la ricerca di una vera realtà visiva al Canova 22

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Sembra impossibile pronunciare riguardo all’occhio una parola diversa da “seduzione”, non essendoci cosa più attraente nel corpo degli animali e degli uomini.

Ma la seduzione estrema è probabilmente al limite dell’orrore. A questo proposito, l’occhio potrebbe avvicinarsi al filo della lama, il cui aspetto provoca ugualmente delle reazioni acute e contraddittorie”. Si pronuncia con queste parole G.Bataille nell’elaborare la voce “Occhio” del suo “Dizionario critico”. Quelle del filosofo francese sono riflessioni in completa sintonia con i lavori di Marco Puca presso lo spazio espositivo Canova22, l’antica fornace di Antonio Canova, a Roma.

MIOTICA” è il titolo dell’esposizione. La miosi consiste nella diminuzione del diametro delle pupille con la conseguenza di vedere gli oggetti a distanza in costante rarefazione. Un gioco visivo attraverso il filtro di lenti poste al centro della sala, incollate al sostegno di un telescopio. Così acquerelli, se da un lato proiettano verso la rappresentazione della morfologia marchigiana, dall’altro permettono la manifestazione epifanica dello stereotipo di ognuno di noi. La fornace si trasforma in un spazio che incentiva una “creatività di sopravvivenza“, nascente dal conseguente disorientamento. Non a caso il telescopio ha un pezzo mancante: il cannocchiale, garanzia e sostegno dell’osservazione limpida e priva di distorsioni. La sua mancanza genera quel senso di fatica nella ricerca di punti di riferimento. E’ così che si è costretti a compiere lo sforzo miotico alla ricerca di un sostegno visivo. Inevitabile chiedersi quale sia la vera vista: lo sguardo miotico o lo sguardo ottico retinico? Quando apriamo davvero gli occhi? Cosa assicura che la vista ottico-retinica sia il traguardo da raggiungere in ogni osservazione?

L’artista marchigiano riesce, attraverso questo esperimento visivo, a spingere gli osservatori verso il reale senso della vista. Perchè la vista non è quella che ci è consegnata, ma quella che ogni giorno cerchiamo di elaborare. “Aprire gli occhi” non è spalancarli, ma avere la capacità di guardare “oltre”, di non affidarsi ad alcun sostegno se non a noi stessi e al proprio buon senso. Se usciamo di casa e guardiamo un albero, una casa o un qualsiasi oggetto che sia davanti ai nostri occhi, essi ogni giorno che passiamo ci risultano alla nostra vista uguali; il primo giorno siamo curiosi, il secondo ne notiamo il particolare sfuggito, il terzo passiamo e osserviamo passivamente, il quarto, il quinto e cosi’ via usciamo già sapendo cosa abbiamo davanti ai nostri occhi e smettiamo di guardare. Questo genera senso di sfiducia che solo il costante sforzo di rendere ogni osservazione un’epifania puo’ controvertire. E’ la stessa operazione che coinvolge P.Cèzanne nel dipingere “le mont sainte victoire”; ogni volta che la montagna sembrava completata, ecco composta un’altra rappresentazione, e un’altra ancora. La montagna non era mai quella che vedeva a occhio nudo, e Cèzanne si sforzava di cogliere particolari e colori offuscati dalla visione ottico retinica se non allenata ad un sforzo visivo che ponga in rarefazione tutto ciò che ormai diamo per scontato e ci proietti a canoni visivi che aprano alla curiosità e all’alterità. Lodevole quindi l’iniziativa di Puca di incentivare, in un periodo di forte crisi sociale, ad “aprire gli occhi” questo anche e, soprattutto metaforicamente. Infatti non è facile lo sforzo di un miope nell’elaborare le sue distorsioni, cosi’ come non è facile capire quale sia la verità, quale sia il buono o il cattivo all’interno di un mondo di apparenze e di attori costantemente posizionati sul palcoscenico. Per questo motivo è importante la propria elaborazione, lo sforzo visivo, e di conseguenza razionale, di darsi delle risposte da soli senza bisogno di sostegni, aiuti o persone che lo fanno per noi magari ingannandoci. Se, quindi, c’è una via di fuga da questa condizione non può’ essere che quella di sfruttare noi stessi, di metterci in gioco con le nostre capacità, cosi’ come ci si mette in gioco nelle epifanie miopi con le visioni e, di conseguenza, il manifestarsi di una speranza che si dissolve per poi riprodursi. Si, la speranza, la stessa che Puca vorrebbe vedere in essere attraverso l’accrescimento di questa autocoscienza, la speranza che rimane sempre sulla punta della lingua, quella che ci fa andare avanti nella consapevolezza dell’insensatezza della realtà che ci circonda. Il punto di vista autonomo e, in connessione, la speranza che ne viene prodotta, perchè lei è come ossigeno per un essere vivente dove i polmoni si agitano e subito si tranquillizzano, ogni secondo vuoti, ogni secondo pieni ma, mai soli.

Nicola Di Lisa