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Dostoevskij in scena al Parenti di Milano

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Mino Manni,  accompagnato dalle note di un violino, sonda le radici del male, il male come frutto di una libertà illimitata e arbitraria  ma anche  come  fallimentare esaltazione di sé al di là di ogni regola.
In quest’opera Dostoevskij affronta il tema scabroso della pedofilia, senza prendere mai una posizione né dare mai un giudizio definitivo: il grande autore russo rappresenta, infatti, l’ambiguità dell’animo umano senza alcun tipo di compiacimento, il suo intento è esclusivamente quello di approfondire la natura contraddittoria dell’uomo, di tentare una riflessione estremamente sincera, al di là di ogni schema o freno morale, senza eufemismi né indugi, attraverso un grande richiamo alla libertà.
Il personaggio sulla scena si apre dunque al pubblico, in una dichiarata scissione morale e nell’insolubile dubbio che la accompagna; vivisezionando senza sconti ogni sfumatura, ogni impulso, ogni contrazione dell’anima e del corpo umano, si mette a nudo e chiede ogni sera comprensione e condivisione, o forse anche rifiuto, commiserazione.
In equilibrio su un filo che scende verticalmente negli abissi dell’animo umano, il protagonista Stavrogin è come un funambolo diviso interiormente tra bene e male, ma non riesce a decidere quale via intraprendere e da questo stato di sospensione nasce il suo profondo dolore.