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“Le nostre donne”: quasi una nostalgia, Assous diverte e convince con il trio “Siravo-Morgese-Salce”

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"Le nostre donne" con Emanuele Salce, Manuele Morgese ed Edoardo Siravo

di Paolo Verlengia

Chi ama il teatro si trova spesso a condursi alla ricerca di performances di nicchia, talvolta ermetiche talaltra ombrose, proprio per via della purezza di quella passione che cerca intimamente di preservare intatta l’idea (o forse l’ideale) di un’arte elevata, più alta delle altre. In questo modo si corre il rischio di abituarsi all’immagine di un teatro visto come linguaggio criptato, raffinato ma perdente rispetto alla leggibilità ostentata e spesso scomposta dei linguaggi proliferati nelle viscere della babele tecnologica (il cinema e soprattutto la televisione, che trovano nel web un effetto di frazionamento ed eco ad infinito).

Torna dunque necessaria una riflessione classica della modernità: esiste un’arte elevata, distinta dalla produzione commerciale? È davvero impossibile una forma d’arte popolare, che riesca ad aggregare quantitativamente il pubblico senza perdere in qualità?

Come sempre, di fronte alle domande giuste ed utili non è tanto importante fornire una risposta, quanto conservare aperto l’interrogativo, come antidoto alla chiusura ed al pregiudizio.

Uno spettacolo come “Le Nostre Donne”, dell’autore franco-tunisino Eric Assous con la regia di Livio Galassi, tenutosi il 21 aprile all’Auditorium Flaiano di Pescara all’interno della programmazione “Teatro d’Autore” a cura di Florian Metateatro, sembra perfetto per affermare l’attualità del quesito.

La scena predispone tutti gli strumenti prescritti per la commedia di scuola, precedente alle decostruzioni del Novecento, dove la parola può ancora creare azione: un interno borghese di un bianco candido, accessoriato con tutti i crismi teatrali (le due quinte sul fondo che alludono alle stanze private, la quinta di proscenio che indica la porta dell’appartamento, il tavolo e le sedie sul lato, il divano centrale sul fondo sormontato da due ampie finestre), che in teatro divengono strumenti plastici per assecondare la recitazione e persino per accompagnare la formazione di un determinato tipo d’attore.

Parliamo infatti del salotto che ha fatto da cornice alla commedia brillante dei maestri francesi del secondo Ottocento (Scribe, Dumas, Sardou, Faydeau) così come della gloriosa drawing-room comedy inglese di Oscar Wilde e Noel Coward (prima di Neil Simon in America), tutti testi che hanno permesso la crescita di almeno tre generazioni di attori italiani attorno al modello del mitico “grand’attore”, capace di calamitare l’attenzione del pubblico sui palcoscenici di mezza Europa e di mezzo mondo.

Ne “Le Nostre Donne” il salotto di scena corrisponde alla dimora di Max, al secolo Edoardo Siravo, pienamente a suo agio nei panni di uno scapolo impenitente, ma non per questo emancipato da una relazione annosa quanto burrascosa con la sua Magaline. Sì perché le donne entrano ed escono continuamente dalla scena tramite i discorsi dei tre personaggi, tutti protagonisti alla pari di questa commedia integralmente al maschile.

I meccanismi ferrei della scrittura di Assous permettono di reggere assieme personaggi in carne ed ossa e presenze femminili, ora fantasmi ora illusioni, senza mai perdere contatto con le esigenze di una trama che avvince costantemente l’attenzione del pubblico con la sospensione del noir e la leggerezza dello humor più trascinante.

Emanuele Salce è Paul, il personaggio più equilibrato -quanto meno all’apparenza- che l’attore riesce a vestire coerentemente con il suo stile recitativo garbato e signorile. Manuele Morgese è Simon, un nevrastenico immaturo -almeno così pare- in cui l’attore partenopeo può declinare in chiave brillante la sua inclinazione drammatica.

Ma tutto è apparenza, come nella migliore commedia degli equivoci. Assous ruba dalla cronaca la situazione drammatica (la violenza sulle donne) per montare un congegno pirotecnico eminentemente teatrale, che non teme la sua dimensione di finzione e di gioco, e che non cede minimamente alla tentazione intellettuale.  Il risultato dimostra che un lavoro drammaturgico, quando eseguito con una maestria che proviene dalla conoscenza diretta dei meccanismi di scena e di platea, assolve sempre ad un compito che va oltre il semplice divertimento, pur resistendo all’alterigia dell’arte impegnata: tutti e tre i personaggi risultano trasformati alla fine della commedia, come passati attraverso un processo di auto-conoscenza, oltre che necessario al disvelamento della trama a favore del pubblico.

La precisa geometria del testo di Assous -che permette a ciascuno dei personaggi il proprio momento di assolo, distribuito con studiato equilibrio lungo la temporalità dell’azione- fissa le possibilità dello spettacolo fisiologicamente al di qua delle vette del capolavoro, ma il dato di fatto è che si esce dalla sala pienamente rinfrancati, avvolti dal tepore di una vaga nostalgia verso un teatro genuino e schietto come quello de “Le Nostre Donne”, compagno ammiccante del tempo che si fugge via.