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“Il giardino persiano”, il libro di Chiara Mezzalama racconta la Persia dei suoi ricordi

1955

Esce per i tipi delle Edizioni E/O “Il giardino persiano”, di Chiara Mezzalama. Si tratta di un viaggio, a ritroso nel tempo, della sua infanzia speciale in un paese in ebollizione. Un paese che stava cambiando e che, ci dice lei nella intervista qui sotto, è ancora in cambiamento.

Un paese che va scoperto, conferma la scrittrice. La scoperta, secondo Mezzalama, evita i fraintendimenti, evita la caduta nel dualismo male/bene e invita all’incontro.

Chiara Mezzalama, il libro “Il giardino persiano”, fiorisce come un ricordo. Un momento di riflessione personale su un frammento fondamentale della propria vita. Perché ha deciso di rendere pubblico un momento così intimo?

Mi piace l’idea che un ricordo “fiorisca” come un giardino. Credo che accada sempre nella scrittura che un ricordo si faccia strada all’improvviso. Il perché accada in un determinato momento rimane tuttavia un mistero anche per chi scrive. Nel 2009 in Iran i ragazzi sono scesi in piazza dando vita al movimento chiamato l’Onda Verde. Guardando quelle immagini di folla, la gente che protestava contro le elezioni presidenziali, mi sono tornate alla mente le immagini della rivoluzione Khomeinista del 1979. Mi sentivo in qualche modo legata a quei ragazzi che trent’anni dopo stavano lottando, ho pensato che ritornare alla mia esperienza vissuta da bambina in quel paese con una storia così tragica, fosse necessario. L’aspetto intimo delle mia storia (mio padre è stato ambasciatore d’Italia a Teheran dal 1980 al 1983)  non poteva rimanere slegato dalla sua dimensione pubblica, storica.
E’ un tema centrale quello del viaggio, inscindibile da quello della scoperta. Cosa ricorda dello “stupore”, della favola, e cosa anche del momento durissimo dell’impatto con la realtà? Quando si è cominciata a rendere conto che qualcosa non andava?

Ho scelto di scrivere “Il Giardino persiano” dal punto di vista dell’infanzia. Quando si è bambini, tutto è vissuto con stupore e meraviglia, anche gli avvenimenti più tragici, incomprensibili. La vita stessa è una scoperta a quell’età, tutto appare nuovo, misterioso, era proprio questa dimensione un po’ magica e avventurosa che volevo raccontare. L’impatto con l’Iran è stato fortissimo, fin dal primo momento. Lo descrivo nella prima scena del libro, quando arriviamo all’aeroporto di Teheran; era chiaro da subito che stavamo entrando in un altro mondo fatto di violenza ma la violenza, a sua volta, nascondeva una bellezza altrettanto straniante.
Nella lettura si capisce che si parla di un “noi” e un “voi”, una distinzione fondamentale che sembra quasi un manicheismo. Questo mondo della “casa celeste” e quello parallelo “fuori” Le sono rimasti dentro? Questa linea di demarcazione tra l’Iran e il mondo del gioco materno per quanto Le è rimasta dentro? 

La storia millenaria della cultura iraniana si basa su questa separazione profonda tra dentro e fuori: fuori è il caos, – in quegli anni era ancora più evidente essendo in corso la guerra contro l’Iraq – ma esiste sempre un dentro al quale tornare: un giardino, la propria casa… non è un caso che il giardino persiano fosse considerato come una rappresentazione del paradiso in terra. Non si tratta di manicheismo, è un fatto di sopravvivenza. Penso ai tappeti persiani, alla loro importanza nella cultura iraniana non soltanto come oggetti decorativi ma come una parte dell’identità di un popolo. Lo stesso vale per la poesia che ha tutt’ora un’importanza fondamentale per gli iraniani.
Lei cosa si sentirebbe di consigliare ai ragazzi di oggi che si scontrano con questa diversità che emerge così prepotente, non Le sembra anche a Lei che stia salendo da lontano un conflitto magmatico tra culture costrette a convivere?
Io girerei la domanda: in che modo possiamo avvicinarci a culture diverse che vengono spesso rappresentate nei loro aspetti più negativi? Riguardo all’Iran, un consiglio che mi sentirei di dare è di andare a visitare quel magnifico paese. Per conoscere l’altro bisogna farne esperienza: la letteratura, il cinema, la musica e l’arte in generale sono degli strumenti potentissimi di conoscenza. Non mi convince l’idea di uno scontro di civiltà; è un modo strumentale per fomentare la paura e giustificare dei comportamenti inaccettabili (questa considerazione vale nei due sensi, l’Islam integralista si nutre di questa demonizzazione dell’occidente e viceversa). Il concetto di convivenza non può fondarsi su una costrizione, deve passare per la conoscenza e l’accoglienza reciproca.