Cosa fa di un concerto un “bel concerto”? La passione, la forza comunicativa, l’energia e il pathos. Ecco, in elenco, tutti gli elementi che hanno contraddistinto la performance dei Counting Crows alla Cavea del Parco della Musica il 4 luglio.
I Counting, emersi durante un periodo di profonda trasformazione musicale e culturale negli Usa che si affacciavano al Grunge, sono la formazione che meglio ha interpretato il pensiero di Thomas Bernhard, in “Perturbamento”, del 1967 «La verità è tradizione, non è la verità».
La tradizione di un rock pulito che non fa da sponda a un abisso di dannazione come fu per i Nirvana. Con “Somewhere Under Wonderland Tour” i Counting danno prova di una profonda trasformazione intercorsa dopo il concept album “Saturday nights and Sunday mornings”. Dopo il periodo turbolento che ha visto anche profondi cambiamenti nella band, le nove canzoni che compongono lavoro ha dato spazio a un nuovo gruppo, profondamente ottimista e qualche volta stordente.
Il frontman e scrittore Alan Duritz ha incantato il pubblico. Con il fisico che proprio non si addice all’iconografia classica del rocker duro e puro, Duritz ha semplicemente magnetizzato l’attenzione della Cavea, cantando per più di due ore, interagendo senza troppi problemi il pubblico.
Dopo un inizio non proprio giubilante con “Sullivan Street” che ha però riscaldato l’atmosfera, il gioco comincia a diventare interessante un incursione nel “ancient”, infatti il gruppo si concede un revival con “Mrs. Potter’s Lullaby”, del terzo album “This desert life” uscito nel 1999.
Il pubblico perde definitivamente il controllo, rompendo tutti gli schemi che lo vogliono imbalsamato anche durante un concerto rock nella platea della Cavea quando Duritz intona le prime note di “Mr.Jones”. A questo punto intervengono gli uomini della sicurezza, ai quali la situazione era chiaramente sfuggita di mano. Cercando di portare di nuovo ordine in mezzo alla folla in delirio, si riesce a calmierare la situazione optando per una soluzione di compromesso: non si torna ai propri posti, per buona pace di chi ha messo “pesantemente” mano al portafoglio, e tutti davanti al palco a gambe incrociate, una ottima incursione nei concerti alla Guccini anni ’80.
L’emozione diventa effervescente quando l’arena si riempie delle note di “Colorblind”, dal soundtrack di “Cruel Intensions”. Un “I’m ready” ripetuto ossessivamente, accompagnato da un pianoforte solo, lasciato poi scivolare su un tappeto di note di violino. Entusiasmo.
Con “Omaha”, si riaccende l’animo dei più agguerriti fans del gruppo. La canzone infatti è un altro gioiello della corona dei Crows, direttamente da quella inestimabile cassaforte che il loro masterowk “August and everything after”, pubblicato nel 1993. Il pezzo diede la prova pratica di come il folk di mandolino e fisarmonica potesse ottimamente coniugare con il rowling di un rock non eccessivo.
Le capacità interpretative di Duritz vengono chiaramente messo in mostra quando vengono proposte delle cover di brani eccezionali: “Like Teenage Gravity”, di Kasey Anderson, “Friend of the Devil” dei Grateful Dead e “Big Yellow Taxi” di Joni Mitchell. Con “Earthquake Drive”, “A Long December” e “Rain King” il concerto si avvia a un degna conclusione, lasciando nel pubblico solamente la voglia di incontrare ancora una volta i loro beniamini «in primavera». Come promesso da Duritz in persona.