In scena al Teatro Ghione fino al 13 dicembre “La Tempesta”, regia di Daniele Salvo, con Giorgio Albertazzi. Nome che, già da solo, è garanzia di eccellenza. Ma questa volta c’è anche qualcosa di più.
La storia è conosciuta. Le battute più famose dell’opera, pure. Ma nell’interpretazione di questa compagnia la performance è andata oltre. La regia di Salvo ha dato lustro alle parole, le parole che, solitarie, sono state l’architrave eccezionale di tutto lo spettacolo.
«Le parole non sono mai pazze… è la sintassi che è pazza». Scriveva Roland Barthes, in “Frammenti di un discorso amoroso”. In effetti, questa storia altro non è che una efficace esperienza singolare, una quest, una recherche del motivo più intimo della vita di un essere umano: l’amore. Amore che si manifesta nell’impulso giovanile di una ragazza isolata che ama a primo impatto, Miranda, che ci regala una performance così bella da farci rimanere a occhi aperti. Questa Miranda è infantile, di impulso, vive con l’Es che domina il lobo prefrontale, non vede altro se non il suo mondo, che è quello che si costruisce lei da sola. Una Miranda che carica di gestualità rievoca, in forme molte umbratili, una Piera degli Esposti.
È uno spettacolo sul Logos e per il Logos. Uno spettacolo giovanneo, che cuce ogni singolo discorso dentro una rete più grande di significati, ogni singolo verbo non può vivere al di fuori del contesto che lo crea. E il nostro Ariel è la personificazione eccitante di questo Logos. Così il Creator e la Creatura non solo creano ma sono, per di più, anche la stessa persona. Perché se sull’Isola Dio è Prospero, la manus creatrice è questa ninfa eterea Ariel. Una Ariel da applausi, che non si abbandona mai troppo al preziosismo e anzi, gentile, guida lo spettatore nel mondo incantato di una magia che, sola, riesce a creare.
Finalmente Calibano non assume un ruolo dominante nell’opera. Troppo spesso è stato dipinto come il vero protagonista di questo mondo, strana alchimia di una lettura politica di un testo teatrale. Pessima lettura. Lascia interdetti il motivo del perché Calibano dovrebbe avere i movimenti scenici di uno psicotico. Quando in realtà è solo il Male assoluto. Conscio male assoluto.
Se Job, ne “il mercante di Venezia”, si era abbandonato sulle gambe di uno stanco Shylok, qui. Sul finir dell’opera, sulle gambe di Albertazzi non si appoggia nulla: Ariel lo lascia, la figlia si sposa e l’isola lo fa andare via. Immobile resta il maestro sulla scena, e anche se quel mondo è fatto della stessa sostanza dei sogni, con l’arte di Albertazzi quel sogno e più concreto di qualsiasi altra policy sociale. Fulgido Albertazzi, catechismo di uno Shakespeare che si fa sinfonia solo se il maestro è in grado di organizzare intorno a sé i riottosi orchestrali. Prospero controlla dall’alto. Apollineo, canta, perché questo fa Albertazzi, con una sicurezza sacrale, canta appunto al mondo non una storia, ma incanta con una vita tutta dedicata all’Arte. Un’Arte scintillante, musicale, feconda e impaziente di dare ancora.