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Madama Butterfly e Marx. Un trionfo a Caracalla

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Madama Butterfly incanta Roma. Un trionfo di applausi. Gli spettatori, durante la performance, si protendevano, fisicamente, verso il palcoscenico, la sera del 16 luglio, mentre Asmik Grigorian intonava le arie più note dell’opera di Puccini.

Ma qualche cosa di amaro la lascia in bocca la rappresentazione di Alex Ollé del “La Fura dels Baus”. Se Marx incontra Butterfly l’amore delle “piccole cose” non può che diventare un ombra di quello che fu. Cio Cio San diventa un’icona, un modello di regressione dell’indigeno che quasi si vergogna di quello che è. Uno scontro tra capitalismo e glocalismo. Forse troppo.

Cio Cio San diventa americana, o meglio, si sente americana e il regista, insieme al costumista Lluc Castells, decidono di farla vestire da ragazzina che sfiora il lolitismo. Perché? Perché la lettura monotematica marxiana, che fa dell’algoritmo “denaro merce denaro” un’icona del destino, diventa un paradigma anche nella lettura dei sentimenti. Allora, Cio Cio San non è più solo la geisha mancata, ma è anche, e questa è la cosa peggiore, una calcolatrice svampita. Una ragazzina sciocca. Perché non può essere una guerriera.

Nella sua mente il mondo vola diversamente, e la schizofrenia del personaggio viene magnificamente calcata dalla Grigorian, ma l’altro mondo, quello dedito al successo, al melisma intonato sulla nota del dollaro, di lei non ne vuole sapere. In questa favelas che non lascia scampo all’immaginazione il doloroso anfratto monodrammatico di Butterfly prende su di sé il peso intero dell’opera.

Certo, si sa che la Butterfly è la prima opera pucciniana nel quale l’ego del compositore scompare, anzi si ritrae quasi definitivamente. Sorvolando sulle cineserie del I atto, utili a raccogliere gli applausi, la consunzione del melodramma di gruppo sovverte il meccanismo dell’intera opera, facendo di Cio Cio San il centro intorno al quale ruota un mondo di assoluto dolore.

Ma ancora una volta la sincope introdotta dalla lettura prettamente materialista del mondo indigeno sovverte la possibilità di una catarsi. Se nell’universo della causa e dell’effetto la nota dominante è quella della necessità, allora il mito della libertà diventa inutile. Cio Cio San si uccide e tutto finisce. Ma allora della speranza cosa resta?

Niente, Butterfly già sa che tutto è destinato alla morte. Lo svela nella ninna nanna orrenda destinata al figlio nel III atto, dove il mondo degli ultimi svaligia lo spettatore della rimanente possibilità di sognare un mondo migliore; lo svela anche la perfetta organizzazione dei materiali tematici, come ad esempio il passo dell’ “Un bel dì vedremo” dal sol bemolle del canto di Cio Cio San al la maggiore dell’orchestra. Inoltre, nessuna aria nell’opera è un pezzo che ripropone lo schema del pezzo chiuso. Non lo è il canto “Un bel dì”, dove l’orchestra conclude. Non lo è l’addio al figlio. Ancora meno la trenodia “Che tu madre”, dove sembra più un tentato omicidio delle arie tradizionali dell’opera lirica.

Non c’è scampo. Il soldo, il talento, il tallero vince su tutto. Vince la famiglia di pezzenti che circonda Butterfly, vince la politica di Sharpless, un ottimo Stefano Antonucci. Vince la machiavellica consapevolezza di Suzuki di Anna Pennisi, una voce materna e autorevole. Ma soprattutto vince la libido sfrenata di Pinkerton, Fabio Sartori. Per il quale tutto è gioco, vita, amore, maternità. Sartori domina la scena. È possente nel canto. Se il soprano ha dominato il suo Do5, il ReBemolle sovracuto d’inizio dell’opera è stato omaggiato, il Do del tenore alla fine del duetto del primo atto ha reso ben consapevole lo spettatore di chi si aveva davanti.

La prospettiva di lettura offerta lascia ampio spazio ai mugugni. Una panorama materialistico per un’opera di un autore che tutto era fuorché politicizzato lascia il tempo che trova. Eppure, nella dimensione così terrestre della prova scenografica c’è ancor spazio per una nota trascendentale. È questa prospettiva che garantisce l’esistere di quel “quid” che non lascia tutti a terra. Il costante ondeggiare tra un monito alla terrestrità e al “primum vivere” e quell’anelito di bellezza che Butterfly difende fino all’onore sommo del suicidio. Suicido che perseguita la sua famiglia, come nella grecità la vergogna che cade da padre a figlio, così anche lei, nella sua “aischunomai”, recepisce il dovere, il “katechon” di essere Libera.