Il Festival del Medioevo di Gubbio è in corso. I pellegrini sono arrivati, sulla via di Francesco…

Sabato 14 maggio 1356, l’anonimo autore della cronaca del viaggio da Roma a Gubbio lascia di buon’ora l’«Albergo la Fredura» di Valfabbrica a cavallo in compagnia di Ettore degli Agemoni e Rinaldo Ivanoe. Esperienza in fondo nuova e tutta da raccontare per un giovane in abito francescano che ha vissuto per tre anni in un convento e ha viaggiato sei giorni a piedi con i suoi compagni sulla scia del maestro. Come perdere una parte del proprio corpo nel momento in cui se ne riconquista un’altra creduta perduta. «Ieri sera», si legge infatti nella cronaca, «giunto per la prima volta dopo tanto tempo in una taverna, dovendo spartire la tavola con l’accompagnatore inviatomi da mio padre e il cavaliere incontrato per via, mangiai come loro. Vino dolce e frutta fresca di stagione, de lasanis, frittelle di formaggio, cialdoni». Poco importa che la sua forchetta è stata spesso preceduta dalle mani di quei due ingordi con la gola foderata di lamiera: «Il Signore, nella sua infinita misericordia, mi perdoni questo atto di gola e intemperanza, che mi ha portato a scegliere il desinare del cavaliere a quello del monaco». E che ora sconta mentre torna a viaggiare su un cavallo dopo più di tre anni: «Mi sentivo come su una nave sballottata dalle onde mentre viaggiavamo verso Gubbio sulle orme di Colui che mangiava mezzo pane per riverenza del digiuno a Cristo benedetto, che non aveva toccato alcuno cibo materiale. Eravamo sulla via santa del glorioso messere Francesco, quella da lui con sofferenza cercata, con coraggio conquistata e con gioia percorsa subito dopo la rinuncia ai beni paterni».

La mente del narratore va a Caprignone, all’abbazia di Vallingeno, alla casa degli Spadalonga, al cenobio della Vittorina, all’ospedale di San Lazzaro, ma anche alla vestizione del saio, all’assistenza ai lebbrosi, al miracolo della scrofa, all’ammansimento della “perniciosa Lupa”: luoghi ed episodi del primitivo francescanesimo carissimi a uno “spirituale” come magister Fioravante da Perugia. Questi i pensieri del novizio quando viene scosso da un grido, seguito da una tremenda bestemmia. Un attimo dopo si ritrova a lato della strada per la spinta di Ettore, che gli sbarra la strada con il suo cavallo. Più avanti, Rinaldo se ne sta immobile con il braccio destro alzato in mezzo alla via polverosa. Nel silenzio unanime, un tintinnare di sonagli e uno stridere di ruote emergono dalla fitta boscaglia. “Chi va là!”, grida il cavaliere. “Zenobi di Forese e il suo garzone, mercanti amici!”, risponde una voce rassicurante. “Via libera”, sentenzia Ettore dopo un sonoro sospiro. «Apprendevo così che, pur sconfitta, la peste produceva ancora i suoi effetti. E sorridevo del fatto che lo scampanellio di un carro di mercanti poteva essere preso per il segnale di un appestato da parte di uomini in spada e corazza mentre lasciava indifferente un novizio coperto da un saio », conclude quasi divertito il narratore mentre la marcia riprende più spedita di prima, scandita dal racconto delle peripezie di Zenobi. Questi era arrivato in Umbria per la via di Siena, fermandosi a Città della Pieve, a Perugia, a Città di Catello, nuovamente a Perugia e poi a Foligno, e ora viaggiava “sul chamino d’Aghobio per la festa di santo Ubaldo”». Tanto grande, questa festa, che «per la via si iniziavano ad incontrare gruppetti di viaggiatori appiedati o su carri colmi di masserizie, tutti esultanti e giubilanti nel dirigersi nella città del santo loro, che acclamavano chiamandolo per nome come se fosse uno di loro: “Ubaldo! Ubaldo!”, gridavano tutti, persino coloro impegnati a trainare carretti con magri sacconi; e nelle brevi soste fatte per riprendere fiato, per asciugare il sudore dalle fronti terrose, scambiavano commenti sulle notizie dello svolgimento della festa, sulla presenza dei forestieri, sul gaudio universale che animava la città in attesa del dies festivals, il 16 maggio, data della morte del Protettore. Al che mi accorsi anch’io di gridare, stupendo i miei accompagnatori: “Sono l’araldo del gran re!, mentre Gubbio si iniziava a distinguere alle falde d’un monte di cui pareva rubare il colore». È in questo clima che il viaggio prosegue sino a quando il narratore e il suo accompagnatore si separano da Rinaldo Ivanoe, augurandogli buona fortuna per la giostra. «Lasciammo la strada principale per una secondaria, quasi nascosta e assai scoscesa, recante ad un castello sorvegliatissimo da gente d’arme, che non tardai scoprire fedele all’imperatore. Non mi sorpresi di trovarmi mio padre, che stentai a riconoscere mentre mi veniva incontro per abbracciarmi. Era molto invecchiato. Poco dopo mi sedetti a tavola con lui, che poco volle sapere dei miei anni di studio e meno ancora mi parlò di sé. Sembrava ansioso di darmi istruzioni sul modo in cui avrei dovuto comportami una volta entrato a Gubbio, dove mi sarei preso cura del giovane figlio di Giacomo Gabrielli, colà rimasto con la donna che lo aveva messo al mondo nel convento di*** Qui tutti i giorni sarei stato maestro del giovane e di altri tre bambini, mentre avrei alloggiato nel quartiere di Santo Pietro, a casa di messer Fabritius, che conoscevo come grande compulsatore di archivi e che mi attendeva al tramonto a Porta Vittoria. Per giungervi bastava ritornare sulla via che avevo da poco lasciato e seguirla sino alla fine. La via di santo Francesco».

5 – Fine

Le puntate precedenti:

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Info: www.festivaldelmedioevo.it