Sono vegnù da Ventimiglia
per pagare il celibato
cento lire mi è restato
cento lire mi è restato
sono passa’ per Ventimilia
per pagare il celibato
cento lire mi è restato…
In realtà di questa canzone popolare esistono moltissime versioni… Fa parte del mugugno sotterraneo che per mille rivoli si manifestava durante il fascismo. Il riferimento è chiaro. Si parla della tassa sul celibato, oggetto allora di battute e salaci e a fascismo archiviato argomento tra i più gettonati per ridicolizzare il regime di Mussolini. Forse oggi pochi lo ricordano, ma quella tassa esisteva davvero. L’imposta sul celibato fu istituita il 13 febbraio 1927, alla vigilia di San Valentino – ma questo deve essere stato casuale – con l’obiettivo di favorire i matrimoni e dunque la procreazione. Un’iniziativa nel quadro della politica democrafica che il fascismo – ma in Europa non solo il fascismo – attuo’, senza grandi risultati, in linea con le teorie strategiche ottocentesche che sostenevano che in termini militari la potenza di una nazione fosse direttamente proporzionale alla sua popolazione. In più, anche l’Italia aveva patito i tanti morti e la scarsa natalità durante la Grande Guerra. Per curiosità, la tassa interessava i celibi di età compresa fra i 25 ed i 65 anni ed era composta da un contributo fisso che variava a seconda dell’età (partiva da 70 lire per le fasce più giovani – tra i 25 e i 35 – salendo poi a 100 se fino a 50 anni, per poi abbassarsi se si superava tale età a 50 lire. Dai 66 anni si veniva esentati da tale pagamento. Tali importi vennero aumentati due volte nell’aprile 1934 e nel marzo 1937. Un’aliquota aggiuntiva che variava a seconda del reddito del soggetto. L’importo veniva devoluto all’Opera Nazionale Maternità e Infanzia. La tassa era una delle più impopolari – al pari dell’antica tassa sul macinato – e venne abolita dal Governo Badoglio il 27 luglio 1943, molto prima delle leggi razziali.