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Città Inferno, il viaggio nel tempo che diventa un capolavoro

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«Dio è il Silenzio, Dio è l’Assenza, Dio è la Solitudine degli uomini». Scriveva Sartre. E togliendo Dio dall’equazione, Città Inferno, al Teatro Orologio fino al 14 dicembre, emerge come un capolavoro plastico di Silenzio, Assenza e Solitudine.

Dal principio si capisce poco del volo pindarico che la protagonista sta per compiere. Si intuisce però, fin dall’inizio, che qualcosa non torna: anche solo grazie ai vestiti che stonano storicamente. Si capisce che i fantasmi vivono per il nostro presente e per la sua granitica certezza di sentirsi fragile. Ma sono così belle questi fantasmi. Così entusiasmanti. Così eccezionali, che da sole scaldano via il ghiaccio della solitudine della galera e ti fanno scivolare in quello stato di angoscia liberatoria. Una condizione che sta tra il perché dover essere allegri e la soddisfazione di sapersi un poco tristi.

Le attrici sono tutte bravissime. Tutte: Rachele Canella, Melania Genna, Elena Gigliotti, Carolina Leporatti, Demi Licata, Elisabetta Mazzullo, Daniela Vitale.

L’uomo è una passione inutile. Da sempre. Più lo si studia, antropologicamente, filosoficamente, sociologicamente e più ci si accorge di quanto l’equazione sia insolubile. E nella solitudine luminosa, ciarliera, napoletana, verace, romana di questa galera della fantasia di colpo si smette la “–sofia” e si ci si allarga a raggio di luce sull’anima più intima che è scivolata nel crinale di una dolorosa frattura.

E tutte hanno una storia. Una storia vera. Da Leonarda Cianciulli in poi. Città Inferno non nobilita il crimine. Non ne restituisce una percezione edulcorata, una macchiettistica forma di giustificazionismo sociale; no, Città Inferno ti prende per mano, ti seduce, ti fa ridere sorridere e anche innamorare. Città Inferno va visto.