Dal 19 al 24 aprile al Teatro dell’Orologio va in scena “Padre, Figlio e sottospirito“, drammaturgia e regia di Mauro Santopietro, con Antonio Tintis, una produzione Indigena Teatro, residenza artistica Errare Persona/Casa D’Arte sostenuta da MIBACT e Regione Lazio.
La vicenda si svolge in una provincia dimenticata dove i Paesi hanno nome di Santi, l’Italia. In questa terra tre ragazzi, fratelli, abbandonati, vittime e carnefici a loro volta, vivono in crisi ai margini di una crisi. Spinti dal bisogno di soldi e dalla necessità di scoprirsi finalmente adulti si rendono tutti e tre martiri. Il fratello più grande, Nino, decide di arruolarsi come militare, certo di ottenere uno stipendio che sarebbe difficile da conquistare per qualsiasi ragazzo oggi. La sorella, Alessia, decide di prestare servizio volontario in qualche associazione di aiuti umanitari, con l’intento di scoprirsi finalmente utile a qualcuno. Simone invece, il protagonista di questa vicenda, rimane. I tre fratelli si dividono, perdendosi per qualche tempo. Avviene poi che Nino ed Alessia, gli unici ad aver avuto il coraggio di allontanarsi dalla loro terra, vengono uccisi, lì dove la guerra però si fa per davvero. Sarà Simone a doverli seppellire, lui che per mancanza di spirito è stato l’unico a rimanere nel Paese in cui è nato e cresciuto, il solo a poterli seppellire, a poter fare i conti con le scelte fatte, le sue e quelle dei fratelli. Sceglie di farsi prete, perché si guadagna circa mille euro al mese e si ha diritto a vitto e alloggio gratuito; perché facendosi prete ha l’occasione di rivedere almeno le salme dei fratelli. Quella di Simone diventa così una discesa agli inferi, forse inevitabile, che viene raccontata riavvolgendo il nastro dei ricordi quando ormai tutto è già stato compiuto.
Mauro Santopietro scrive così nelle note di regia: «Scelgo di scrivere queste note di regia come se avessi la possibilità di scriverle sotto forma di pagina di diario. Scelgo di farlo perché trovo sia più consono al tipo di operazione che siamo riusciti a portare avanti, attraversando un percorso di residenza in una provincia, insistendo su un concetto di onestà, non di artificio estetico. Poche luci, una scena reale che riesca a raccontare però anche altro, un lavoro fatto da Antonio di reale connessione con il contenuto del testo più che della forma della drammaturgia; tutti ingredienti, parentesi in cui sospendere questo spettacolo. La volontà è stata quella di voler entrare in una stanza emotiva, sconosciuta a noi come a chi vedrà il frutto di questo lavoro.
Varchiamo la soglia del quotidiano per ritrovarci in un mondo molto simile, ma comunque differente al conosciuto e per questo ancora protetto mondo teatrale; e scopriamo subito che la voce, speravamo di trovarne o ritrovarne almeno una, è differente rispetto a quella che ascoltiamo ogni giorno. Quale voce parla? Quante voci ascoltiamo? Per entrare siamo costretti a riavvolgere il nastro dei ricordi, abbandonandoci alle suggestioni di ciò che potrebbe accadere in quel momento. Forse le emozioni e la memoria emotiva se stuzzicata fa si che i sentimenti siano sempre contrastanti e paradossali gli uni agli altri.
Motore portante di questo nostro viaggio è quindi la storia, raccontarla nel modo più semplice, renderla affascinante certo, ma soprattutto fruibile. Questa per me è la vera arma del teatro e della drammaturgia contemporanea. Tornare a raccontare delle storie con un inizio, un centro e una fine. Questo è stato l’intento con cui si è rimesso mano alla drammaturgia e la base su cui costruire l’intera messa in scena.
I temi affrontati non sono però solamente il ricordo, bensì il presente e la speranza del futuro. Del futuro della mia generazione. Non posso certo parlare per tutti, ma come tutti anche io soffro quotidianamente le criticità del mio contemporaneo e del mio comportamento.
Questo spettacolo è stato l’occasione, forse più di altre, di fare un sano esame di coscienza, artistico e non. Probabilmente nel guardarmi indietro, nel riavvolgere il nastro della vita ho cercato di compiere un primo passo di maturazione. Probabilmente negare il movimento di proiezione in avanti attraverso un movimento rivolto al passato è un processo inevitabile per crescere, per camminare in avanti. Un prendere la rincorsa e scontrarsi con il reale, accettandone i limiti, ma senza lamentarsene. Non c’è morale. Non c’è nemmeno ideologia, ma domande. Così è nata una preghiera».
Teatro dell’Orologio
Via dei Filippini 17/A
00186 – Roma
Sala Gassman
da martedì a sabato ore 20 | domenica ore 17
Info e prenotazioni
La prenotazione è vivamente consigliata
06 6875550 | biglietteria@teatroorologio.com
le prenotazioni possono essere effettuate dal lunedì al venerdì dalle 11:00 alle 19:00
INTERO // 15 euro
RIDOTTO // 12 euro
ingresso consentito ai soli soci: tessera associativa annuale 3 euro