Una storia lunga, cominciata un secolo fa, in Calabria, quella dei vini Librandi, raccontata da Gianfranco Manfredi in ‘Librandi – Storia di uomini, vigneti e vini’. Le 270 pagine del libro, fresco di stampa e pubblicato in doppia lingua per la collana ‘Storie d’impresa’ dell’editore Rubbettino, la rievocano con un ricco compendio fotografico che amplifica il valore delle parole con le immagini iconiche di quella che è stata ed è la storia di una delle famiglie italiane del vino più interessanti del panorama odierno. La narrano, però, altrettanto fedelmente, i filari
che oggi ricoprono gli oltre duecentotrenta ettari vitati di proprietà
dell’azienda meritevole in primis di essere stata capace di interpretare un territorio, la Calabria, e di aver tradotto il proprio bagaglio di conoscenze, studi e sperimentazioni in un caso imprenditoriale di successo ma anche in un’occasione di crescita e progresso per il territorio stesso. Il volume ricostruisce il percorso di una famiglia-azienda del Sud iniziando il racconto da Raffaele Librandi senior, col quale tutto ebbe inizio nei primi decenni del secolo scorso a Cirò, per proseguire con i diversi protagonisti di questo racconto che ha visto
progressivamente entrare l’azienda a buon diritto nel ‘fenomeno-made
in Italy’. Ciò che contraddistingue questa azienda è l’innata
propensione e volontà di dare nel tempo sempre maggior solidità e
rigore scientifico alla conduzione dei vigneti e della cantina. Ingaggiano Donato Lanati, consulente enologico fra i più stimati al mondo, e con lui coinvolgono un team interdisciplinare di esperti e studiosi ai massimi livelli – dal professor Attilio Scienza all’ampelografa Anna Schneider – divenendo via via una realtà italiana riconosciuta e stimata nel settore, dalla critica e dal mercato in Europa e nel mondo, come mai prima era riuscita un’azienda calabrese. ”Con le loro iniziative – sottolinea Cesare Pillon nell’introduzione del volume – i Librandi hanno riempito il vuoto in cui era stato abbandonato il vino della Calabria. Un vuoto che la maggioranza degli stessi calabresi non percepiva come tale”.