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“Le belle notti” o lo spettacolo per un desiderio mai nato

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«Il pessimista deve inventarsi ogni giorno nuove ragioni di esistere: è una vittima del “senso” della vita». Lo scriveva Emil Cioran nei suoi “Sillogismi sull’amarezza”. È vero, ogni persona dovrebbe trovare, perlomeno cercare di trovare, un senso, non solo all’esistenza ma anche a molti altri eventi che gli accadono.
Ecco, talvolta il senso si può trovare anche in un momento casuale, un evento carico di significato, che non è causale ma è un primo incalzante balenare di questo stesso evento nel sistema; non siamo solo tecnica e scienza, non lo è il mondo, figuriamoci se lo sono gli uomini. Per quanto possiamo essere tecnofolli o tecnolesi, si è ben altro da questo particolare e limitato affacciarci sul contingente.
Occorre uno “scuotimento” esistenziale e il teatro è il palcoscenico ideale per affacciarsi al balcone del tempo e vedere, con la calma olimpica di chi può dire di essere andato oltre, la bellezza farsi concreta.
Al Teatro della Cometa va in scena lo spettacolo “Le belle notti”, di Gianni Clementi regia di Claudio Boccaccini, fino al 3 aprile. Uno spettacolo che è prezioso per una lista troppo lunga di punti da elencare, ma che va considerato per quello che è: un momento di rielaborazione di un lutto.
In una scuola degli anni ’60 e degli anni ’90 vanno in scena, parallelamente, due rivolte generazionali. Due occupazioni. Due momenti di “rottura” che realizzano anche i movimenti spiritualmente tellurici dei ragazzi che occupano. Ecco, i ragazzi: una sorpresa assoluta.
Tutti, tutti, sono stati padroni della scena. Tranne qualche incertezza microscopica e praticamente indegna di nota, hanno tutti tenuto il palcoscenico con l’eleganza di un attore consumato.
Si prenda Corrado/Marcello, Paolo Roca Rey, che ha una verve comica tutta sua. Lui riesce a far vera la battuta di Beckett «Non c’è niente di più comico dell’infelicità». E sa far ridere. Giulia, un altro esempio di virtuosismo della recitazione, che deve ovviamente ancora lavorare, nel ruolo affidatogli è perfetta. La ragazza che si fa in quattro perché crede nell’arte e in un gabbiano checoviano di cartapesta, diventa una frustratissima alcolizzata che recita nel “Lear” un miserabile 0,3% di battute e fa la “serva”, una personalità che Maria Chiara Dimitri domina perfettamente, anche nel suo exploit comico sulla colla che fa traboccare di applausi il teatro. Lei, come molti altri nello spettacolo, sono gli epigoni di quel filone di pensiero nobilitante sul riso, reso fondamentale nel ‘900 da pensatori del calibro di Henri Bergson, che ne “Il riso” scriveva: «Non esiste comicità al di fuori di ciò che è propriamente umano».
Nello spettacolo c’è anche il momento per il politico e per il sociale. C’è il momento della tenerezza infantile di un bacio alla Prevert e per il momento fallaciano della “bambina mai nata”.

1797604_613473658804038_7990414784619459723_nA Diana Zagarella tocca il momento del rendez vous, del conto con il proprio passato. Lei, figlia mai avuta, per via di un imbarazzo che ha ipnotizzato le labbra e i corpi dei suoi “potenziali” genitori, diventa la celebrante del rito di passaggio dai padri ai figli. E sono tutti lì, cresciuti e morti. Anna, la figlia di Matilde, Camilla Tedeschi che fa ridere il pubblico già dalle prime battute, e Simone. Che sblocca il suo mondo entrando nel mondo finto della televisione. Benedetto, il figlio di secondo letto di Simone che è diventato “un venduto”. Manfredi, Federico La Pera, è un omosessuale che rischia di diventare un piuttosto un tipo che non un personaggio. Cosa direbbe LeVay di questo tratteggiare per eccesso? Ma La Pera si è distinto anche per il suo primo personaggio, lo sboccato e terrestre Luca del I atto, che da umano troppo umano è cresciuto ed è diventato, oltre che padre di Manfredi, anche un critico d’arte. Emma, la figlia di Enrica, un balbettante Lucia Clementi, si porta appresso la figura di una madre sessantottina e ora manager di successo frequentatrice di Cernobbio, con un amante toy boy che lei proprio non digerisce.
Gustavo, un nome che sussurra un mondo culinario, è il figlio di Marco, il cuoco dell’occupazione. Che però, per distinzione e unione tutta tomista, riconosce il padre ma preferisce la musica, tutto un altro genere di composizione a quella del genitore. C’è anche chi passa dalla parte dello Stato, come Michele, figlio di Mario il toscano, Sergio Andrei, un commissario che “ha tradito”, un “cinico stronzo” che mantiene la cifra comunicativa della musica: un dialogo personale con il figlio.
Tutti cresciuti. C’è chi fa il chirurgo e da ragazzo odiava il sangue, come Corrado. Chi è finito in carcere. Chi si è fatto prete. Chi è addirittura lesbica e ama una ginecologa, interpretata da una brava Clotilde/Federica di Lodovico, del tipo “ginocratica” fino all’estremo. Chi muore per droga. E chi fa “solo” la mamma di sentinella.
Ma non è soltanto un “prima” e un “dopo”. No. Non è soltanto una patetico preludio di Chopin che fa rimpiangere l’ancien Regime della rivoluzione perenne. Anche se, in sala, sono stati tanti i “ah bei tempi”. No. Non erano bei tempi e il rischio di questi spettacoli è proprio quello di ripulire dell’orrore un periodo storico che all’Italia ha fatto più danni che conquiste. Il caos della generazione fallimentare del Sessantotto ha portato la rivoluzione a uccidere se stessa, proprio come Del Noce aveva descritto. E l’evidente stato di degrado culturale di un paese così anormale è anche dovuto a un declino spirituale manifesto che si è reso gravido di preconcetti più che di comprensioni “dialettiche”, troppo care a un virtuosismo marxista devitalizzato e devitalizzante.
“Le belle notti” è una elegia del tempo che fu, ma anche una eulogia di qualcosa di ideale, del “sarebbe stato possibile” che termina, inevitabilmente in un “purtroppo è andata così”. È uno spettacolo sul tempo e sulla condanna all’evidenza. Uno spettacolo che certifica la fine della virtù che è decaduta a valore.
Non si vive di sogni, ma si vive il sogno. E, talvolta, la maturità di una persona e di un popolo, richiede la forza di autocritica di poter e dover dire che, per alcuni, il sogno è diventato un incubo. “Le belle notti” sono le figlie che mai sono nate di un paese civile, di un paese normale, di un paese maturo che, però, è ancora troppo attaccato alla sua adolescenza storica della ribellione generazionale per andare avanti nella sua evoluzione. “Le belle notti” è uno spettacolo che va visto e, se necessario, anche rivisto. Proprio come una bella musica.