Si cambia genere e si passa a ritmi più sincopati al Teatro Eliseo: domenica 31 gennaio, Gabriele Mirabassi al clarinetto, Stefano Micheletti al pianoforte e i ragazzi del Conservatorio di Santa Cecilia si esibiranno in un concerto dalle sinfonie tipicamente jazz.
Mirabassi, “Dal ragtime a Duke Ellington”, uno dei massimi rappresentanti della musica jazz, quale filo unisce questi due generi musicali?
Tutte queste musiche appartengono alla grande famiglia culturale afro-americana, che ha introdotto una novità in tutto il continente, anche in sud America. Questa svolta coincide con l’inizio dell’epoca moderna: uno dei fattori che ha decretato il confine tra mondo antico e moderno è proprio la comparsa della cultura afro in America. E’ un tipo di musica ricollegabile ad un grande fenomeno che ci ha costretto a ridefinire le categorie musicali, soprattutto quelle di colto e popolare. Il ragtime è un po’ nonno del jazz e da lì in avanti: è una forma che mischia con quella disinvoltura tipicamente americana l’aspetto colto e pop, pratica sino a quel momento sconosciuta in Europa. Ed è lo stesso tema che bisogna affrontare in istituzioni come il Conservatorio di Santa Cecilia. Siamo in un’epoca in cui questo confine è stato ormai superato ed è quindi importantissimo testimoniare, dentro un’istituzione di tale prestigio, questa visuale di confronto della musica.
Il concerto come momento di testimonianza quindi?
Certamente, anche perché me lo obbliga la mia biografia. Io stesso ho studiato al Conservatorio e sin da piccolo continuo a suonare musica da camera e classica. Poi è arrivato il jazz e persino la musica brasiliana. Nella mia storia musicale ho trovato necessario testimoniare, vivere questo crinale e non schierarsi solo da una parte della montagna. Io l’ho sempre fatto e mi sono divertito tantissimo, anzi auspico che anche i ragazzi del Santa Cecilia riescano in quest’intento. E’ più divertente che suonare solo uno strumento. E poi, se la musica non è divertimento, perché continuiamo a farla?
Nel programma musicale del concerto di domenica compaiono nomi del calibro di Eubie Blake, George Gershwin e Duke Ellington: cosa è possibile imparare da questi artisti?
Gershwin è il cuore della faccenda, scriveva musical ma andava a scuola da Ravel: è classico oppure no? Ancora oggi è difficile da spiegare: ha suonato con orchestre e scritto opere, ma ha anche saputo mischiare il tutto grazie a quella ventata afro-americana di libertà intellettuale, dentro una musica ormai stagnante. Il concerto all’Eliseo va dai Preludi alle sue canzoni da Musical, a testimonianza della sua poliedricità ed alta qualità musicale, che non viene mai meno, anche quando la destinazione cambia, dal concerto allo spettacolo ad esempio. Poi c’è Ellington, uno di quelli che amo di più, un jazzista puro, ma con dignità da musica classica: grazie a lui si assiste ad una presa di coscienza degli afro-americani che escono dai Cotton club e vedono riconosciute le loro composizioni come musica. L’America, anche grazie a questa sua multietnicità problematica, ha degli ambiti in cui detta il passo e la musica è uno di questi: uno spazio che mette insieme neri e bianchi, senza alcuna differenza.
Il clarinetto è solo jazz?
E’ uno strumento che nasce nel ‘700 e la prima testimonianza si ha in un concerto di Vivaldi. Per clarinetto Mozart compose uno dei suoi più famosi concerti, ma lo si ritrova anche in Brahms. Le sue origini sono quindi classiche e solo in un secondo momento è stato importato nel jazz, grazie agli ebrei russi. Il glissato iniziale di “Rapsodia in Blu” è tipico proprio di quegli ambienti e lo stesso Gershwin, ricordiamolo, era ebreo. Il jazz insomma non ha inventato nulla, ha solo mischiato tutto e mischiare è la cosa che poi rende tutto più buono.
Al concerto di domenica verranno eseguiti anche composizioni dello stesso Maestro Micheletti al pianoforte, insieme a lei sul palcoscenico dell’Eliseo, e che BinRome ha già avuto modo di intervistare qualche mese fa. Lei ha avviato tante collaborazioni con altri artisti, in particolare negli ultimi anni si è avvicinato anche alla musica brasiliana …
Micheletti è il deus ex machina di quest’iniziativa e tengo a ringraziarlo per avermi coinvolto. In Brasile questo processo di ibridazione è forse più presente che altrove. Qui vivono molti afro-americani che, anche grazie al clima, sono riusciti a mantenere vive lo stesso stile di vita dei loro avi. Un fattore che mi ha profondamente colpito quando andai per la prima volta in Brasile è l’impatto della cultura europea con quella africana. Se però in quasi tutto il Sud America la matrice è più che altro anglosassone, in Brasile si respira aria italiana. Basti pensare che dei 22 milioni di abitanti di San Paolo, circa 6 hanno un cognome italiano: due volte più grossa di Roma in quanto città italiana. Qui io ho avuto una specie di riconoscimento atavico, quasi un ritorno alle origini che parla della nostra identità, molti di più del solo jazz.
Domenica avremo modo di ascoltare anche alcune delle migliori voci del Conservatorio di Santa Cecilia …
E’ ora che il Conservatorio, come istituzione e riferimento nazionale, finisca di chiudersi dentro le sue mura invalicabili, circondate da un’aura di misticismo. Anche per questo non mi piace essere definito Maestro, tutto al più Mastro artigiano, come può essere Geppetto con Pinocchio. Noi siamo gente che fa cose emozionanti con le mani. Mi colpisce in maniera positiva il fatto che finalmente il direttore Santoloci abbia compreso l’importanza che il Conservatorio si apra alla città: i musicisti devono unirsi ai cittadini per formare quella comunità sempre più a rischio, perché proprio alla musica è stata spuntata quell’arma di mettere insieme le persone.
La musica deve tornare al suo significato originale: per quanto declinata allo show business degli ultimi anni rischiamo di perderla. E’ lo strumento più preciso e funzionale che l’uomo abbia inventato per mettersi insieme. In Brasile, che è la sommatoria di tutti i popoli del mondo, due fratelli possono avere anche sembianze completamente differenti: nella stessa famiglia può capitare di avere un giapponese e un africano, sono però figli degli stessi genitori perché hanno il dna mischiato. Seppur diversi sono comunque tutti brasiliani perché cantano le stesse canzoni. Venendo a noi, cosa ci ha fatto sentire per la prima volta italiani se non la musica? Dalla Sicilia al Piemonte tutti cantavano le stesse arie: ecco a cosa serve davvero la musica e solo uscendo in città possiamo provare a salvarla, ancora una volta insieme.