Home teatro “Prima della bomba” all’India. Un testo bello, che avvince ma non convince

“Prima della bomba” all’India. Un testo bello, che avvince ma non convince

1710

Viaggio al centro dell’Islam. Con il testo di Roberto Scarpetti, e la regia superba di Cesar Brie, è in scena all’India di Roma fino all’11 settembre, “Prima della bomba”. Un testo che, pur aprendo degli interrogativi che talvolta scivolano sul cliché, vedremo perché, resta un ottimo punto di partenza per un viaggio indispensabile nell’arcobaleno dei motivi più diversi che portano un ragazzo ad abbracciare il radicalismo islamico.

In scena Massimiliano Donato, Marco Rizzo, Andrea Bettaglio, Catia Caramia e Umberto Terruso, sono riusciti, con l’aiuto della regia di Brie, a proiettare nella mente dello spettatore la percezione sincera di un volo incerto tra l’assurdo e il dolore.

Menzione speciale per Umberto Terruso, uno splendido traballante Davide, e Andrea Bettaglio, afgano convincente e poliedrico trasformista spirituale sul palco.

Su un palcoscenico quadrato, memoria di un tappeto orientale, e anche perimetro spirituale di una zona visivamente contrassegnata da un turbinare di emozioni, Davide vive il suo dramma.

Davide, nome regale e israelitico, si lancia tra le braccia di una performance religiosa violenta. Frutto di una falsa coscienza, prodotta in lui da sconvolgimenti emotivi, si lascia andare a una rigenerazione spirituale, che lo porta a prendere il nome, se possibile ancora più altisonante, di Ibrahim, Abramo. Padre di tutti i popoli semiti.

A fianco del nostro Dante del terrorismo, svolazzano particelle elementari di malvagità, insicurezza, scurrilità, violenza.

Quasi comiche a volte. Fa sorridere la eco scespiriana del muro del “Sogno”, che riappare nella regia di Brie quando convince i due attori a usare il Libro del Corano facendolo diventare un muro, proprio come nella “lamentevolissima storia di Piramo e Tisbi”, solo che, però, quella era una commedia.

Nel minestrone generale di una storia che fila via bene, certe volte il cliché è dietro l’angolo. Come ha opportunamente confutato il professor Salazar, nel suo ultimo libro “Parole armate”,  e anche Žižek, nel suo testo “Islam e la modernità”, bisogna smettere di credere che dietro ognuno di loro si celi un racconto. Salazar sconfessa la tesi che vuole ogni terrorista come frutto di un momento doloroso, come fosse una reazione, e Žižek,  con la sua dialettica a volte esagerata, convince a non cedere al racconto rosseuiano del selvaggio sempre buono pronto a raccontarci una storia pedagogica

Ecco, forse Scarpetti cede a entrambe le due disposizioni dell’animo. Quando ricorda che l’afghano reclutatore è vedovo di una moglie che vuole vendicare, facendo sbocciare nell’animo dello spettatore un sintomatico sentimento di empatia, si dimentica di dirci quanti anni aveva la “sposa bambina”. E anche, quando Davide e l’amico vengono aggrediti da un gruppo di, indovina un po’ … naziskin, la prima cosa che Davide pronuncia perché dovrebbe essere “italiano di merda?!”, quando lui stesso è un italiano. Insomma, su un testo nel complesso profondo, insolitamente documentato, gli screzi di imperfezioni sono inaccettabili. Non perché “brutti” esteticamente, ma perché allontanano la quasi perfezione che era lì a un passo.

Le incertezze a volte portano a cadere in riflessioni che sfociano in pensieri apodittici come: ma allora, la soluzione qual era? Che si stesse meglio quando c’era Baffone? Sotto Saddam?

Quando ci si domanda cosa sia il “bene”, al pubblico si offre Nietzsche come risposta. Ed è un modus operandi che sa di antico. Quasi ritrito.

L’accenno al Sufismo, che non cede però alla lezione di Jalal al Din Rumi tantomeno di Al Gazhali,  è troppo en passant, così tanto che mal si incastra nel tutto. Come se si fosse voluto aggiungere a forza, qualcosa di non necessario.

Lo spettacolo, nel complesso, è bello. Da vedere. Direi anche da rivedere. Perché non tutti sanno di cosa ciarlano quando partono le filippiche qualunquiste sul tema Islam e terrorismo. Ed è stata una bellissima scoperta vedere che il teatro, per una volta, ha smesso di pontificare sul bene e sul male ma è tornato a offrire qualcosa da considerarsi come “un utile aiuto per sopravvivere al mondo”.