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Si apre la stagione dell’Argentina con Giacomo Bisordi che mette in scena il testo di Arne Lyrge “Uomo senza meta”

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L’apertura di Stagione del Teatro Argentina è affidata a Giacomo Bisordi, giovane regista di matura sensibilità scenica, che ribalta in invenzione l’assenza di contatto dovuta alle limitazioni anti-Covid con la nuova produzione del Teatro di Roma, dal 17 al 25 ottobre, Uomo senza meta, la microsaga familiare del norvegese Arne Lygre sulle delusioni del sogno capitalista e le ambiguità dei comportamenti umani.

Messo in prova lo scorso luglio – presentato al pubblico in forma di studio in una serata aperta al processo creativo della messinscena – Uomo senza meta è stato il primo gesto “in presenza”, dopo la riapertura a giugno delle sale teatrali, grazie al quale il palco dell’Argentina è tornato ad essere vissuto e abitato dai suoi artefici. Un lavoro che si è confrontato con le nuove modalità di produzione teatrale imposte dalla crisi sanitaria, oltre che con alcuni degli aspetti più profondi a cui questa ci ha messo di fronte: la relazione con il potere, l’isolamento, la necessità della relazione umana e i paradossi che questa comporta. Nelle parole di Giacomo Bisordi, Lygre «è un autore che in Uomo senza meta pone una questione cogente: come il sistema economico in cui viviamo sia capace di disegnare un sistema affettivo completamente deformato, compromettendo la nostra stessa capacità di stare assieme ai nostri simili, assieme agli altri».

Giocare una partita a monopoli è il modo migliore per avvicinarsi a Uomo senza meta. Il gioco da tavolo per definizione si può considerare a tutti gli effetti un corso accelerato di capitalismo. Proprietà, trattative, case, alberghi, debiti, ipoteche – un capitalismo novecentesco, ma identico allora come oggi nella sua tossicità emotiva: depressione per l’agonia che accompagna la perdita, euforia isterica e ingorda nel caso di una possibile vittoria. Uomo senza meta vive di questa tossicità: Peter, un imprenditore pieno di progetti e iniziative, decide di fondare una nuova città sui terreni incontaminati di un fiordo norvegese. Trent’anni dopo, la città è nel pieno del suo sviluppo e accanto a Peter si riuniscono quelli che sembrano essere i suoi affetti: una ex-moglie, una figlia e un fratello. Cos’è successo in questo lasso di tempo? E perché i familiari di Peter sembrano non avere memoria?

Con Uomo senza meta, Arne Lygre analizza le delusioni del sogno capitalista, tra sentimenti, denaro e politica, per centrare la riflessione sull’ambiguità dei comportamenti umani, da sempre facilmente manipolabili dal desiderio di profitto, grandezza e successo. Una drammaturgia che porta in scena il pericoloso gioco di sottomissione e dominazione che corrompe e compromette ogni aspetto dell’uomo, la sua identità, le sue aspirazioni, la sua lealtà: «Arne Lygre è un autore minimalista, scrive con frasi brevissime – continua Bisordile battute più lunghe sono al massimo due o tre righe, non ci sono monologhi. I personaggi, ammesso che si possa parlare di personaggi, parlano per frasi mozzate, ridotte all’osso, senza alcun tipo di sviluppo concettuale. Sono contratti, ma allo stesso tempo ci troviamo di fronte a un autore che dentro a queste battute “piccole” riesce a costruire un mondo con una precisione di dettaglio unica. È un vero maestro in questo, nel saper disegnare qualcosa con il minimo sforzo necessario».

Con il suo stile unico, il drammaturgo norvegese rielabora, parodizza e tradisce il patrimonio genetico degli abissi ibseniani e del minimalismo stilistico di Jon Fosse. Nella dissezione dei rapporti umani, Uomo senza meta tratta quest’ultimi e la loro evoluzione quasi come un oggetto di studio biopolitico, con un allestimento pensato a partire dalla dimensione del distanziamento: «Quello che si è cercato di fare è stato appunto di capire come raccontare questa solitudine, questo individualismo spietato – conclude Bisordi Trovandoci nello spazio immenso del Teatro Argentina, l’idea è stata fin da subito di sfruttarne al massimo le potenzialità spaziali. Si è tentato di far percepire man mano lo spazio come sempre più restringente, sempre più ostile rispetto agli attori, di modo che con tutta una serie di meccanismi scenici, gli attori vengano spinti man mano sempre di più verso la platea, un’opportunità per far incontrare chi guarda con la vicenda che si sta raccontando».