In questi giorni al Piccolo Eliseo si tiene “Tribes“, un testo dell’inglese Nina Raine con la regia italiana di Elena Sbardella, fino al 24 gennaio. Alla scrittrice l’idea per scrivere l’opera è venuta quando, guardando un documentario su una coppia di sordi che stavano per diventare genitori, li sente dire che speravano che il bambino sarebbe nato sordo. Di qui il significato del titolo, “tribù” ovvero gruppi etnici i cui membri parlano la stessa lingua ed hanno la consapevolezza di costituire un gruppo sociale ben determinato e come tale riconosciuto anche da altri gruppi.
E così protagonista della vicenda è una famiglia normodotata di origini ebraiche il cui ultimo figlio, Billy, è sordo dalla nascita. Il ragazzo viene volutamente cresciuto dai familiari come un ragazzo normale, né loro né lui imparano il linguaggio dei segni ma gli viene insegnato a parlare e grazie all’apparecchio acustico può ascoltare gli altri. Ma il punto di vista che prevede di non basare la propria personalità su una sola caratteristica della propria persona, come potrebbe essere la mancanza di udito, si scontra con la comunità dei sordi – una specie di male assoluto per il padre Christopher – quando Billy conosce Silvia. La ragazza, udente nata da genitori non udenti, la quale sta lentamente diventando sorda, lavora nella comunità. Billy è euforico per aver conosciuto tante persone che trova più di altre simili a lui e sentendosi a casa inizia ad imparare i segni.
Ma in realtà non è così semplice e Silvia è il personaggio più drammatico in questa storia. Lei ha a che fare con i sordi da quando è nata, la lingua dei segni per lei è la lingua madre (nel vero senso della parola) ma perdere l’udito è comunque traumatico e non si riconosce più quando si rende conto di non capire più nemmeno la sua stessa voce. Lei e Billy hanno della sordità e della comunità dei sordi due punti visioni completamente differenti. Billy con loro sente di non doversi più sforzare nel cercare di essere qualcosa che non è, ma Silvia, che li conosce da tempo, ha ormai superato la fase “innamoramento” e trova che si comportino quasi come una setta e anche molto gerarchizzata, in cui chi è “più sordo” è al vertice e chi, come lei ad esempio, lo è meno perché non lo è dalla nascita conta di meno.
Azzeccata la scelta di far interpretare il personaggio di Billy da un attore davvero sordo nella vita, a parte questo poi l’allestimento italiano non aggiunge nulla rispetto a quelli già rappresentati negli anni scorsi sia a Londra sia a New York, si limita ad intavolare il problema della lingua (o, meglio, delle lingue perché c’è quella dei segni italiana, russa, americana, ecc…) dei segni come fa il testo. È giusto che chi è sordo impari la lingua dei segni ma sarebbe altrettanto giusto che imparasse a parlare al meglio delle sue possibilità per non precludersi la possibilità di relazionarsi anche con chi non lo è e viceversa. Se si conoscono solo i segni o solo la comunicazione verbale vien da sé che ci si rinchiuda in se stessi allontanando tutti gli altri dimostrando di essere sordi a monte, interiormente, al dialogo in generale.