Home teatro balletto Un lamento lungo millenni, la lingua di Circe che quasi nessuno capisce

Un lamento lungo millenni, la lingua di Circe che quasi nessuno capisce

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Circe è dolore. Circe è sofferenza. Questa piaga spirituale che canta, danza e si muove provocante è in scena al Teatro Studio Uno di Roma.
Attraverso il corpo di Rosaria Iovine – con la collaborazione di Lorenzo De Liberato e Susanna Sastro – vengono messi in scena gli stati d’animo di un fantasma di carne e sangue. Un fantasma che è stato in attesa e, forse, è ancora in attesa. Un attesa che viene anche dal profondo della voce di un’altra grande Greca, come Maria Callas; Callas che canta il dolore di un’altra grande donna in attesa, Butterfly. Una voce stridula contro una tempesta di suoni che rovinano la pace.
Questo attesa, questo dolore diventa una provocazione e anche una vocazione stessa. Diventa la leva per una avocazione a sé di una nuova identità al femminile. Un femminile che, però, si trasforma in una oceanica potenza di narrazione.
La donna è narrazione, ma anche meta-narrazione. Una tradizione orale che si intreccia ai melismi di Rachmaninov e del “Thais” di Massenet e che ricorda al pubblico il peso dell’immortalità, una immortalità trascorsa nell’attesa.
Eppure lo spettacolo è complicato, difficile. Non è di facile lettura. E anzi, la performance propone una sfida intellettuale non facile. L’autarchia del teatro, sciolto da ogni vincolo di comprensione, si è mutata in anarchia. Ma l’anarchia delle elites intellettuali presenta come dono al pubblico una afasia di ritorno che spesso provoca solo noia. Sarebbe sufficiente qualche riga ermeneutica, bastevole per orientarsi nel mare magnum della performance troppo personale per essere oggettiva.
Resta fermo il problema che, in questo mondo diventato atonale, la dissonanza tra l’è e l’essere si scambia troppo facilmente come una melodia.
Questa Circe pentita del suo silenzio vuole parlare e lo fa bene, perché è una Circe che non è ancora una terra conchiusa.