Il film documentario del 2018 di Christian Frei e di Maxim Abugaev, candidato agli Oscar e presentato al Sundance Film Festival, esplora una complessa questione etica del mondo contemporaneo, oltretutto una delle più suscettibili di rappresentazione cinematografica, ovvero quella dell’ingegnerizzazione dei genomi viventi.
Come suggerisce il titolo Genesis 2.0 al centro della narrazione audiovisiva c’è l’attività di laboratori sparsi nel mondo dedicati alla clonazione di animali e all’analisi del DNA: le riprese testimoniano l’attività degli scienziati e documentano la loro visione del mondo suggerendo al pubblico il disappunto o in ogni caso le perplessità di natura etica rispetto a questo tipo di attività, e rispetto al ruolo dell’uomo che sempre più vuole avvicinarsi al potere divino, assumendone le prerogative e mettendo da parte quelle stesse paure che forse gli hanno garantito la sopravvivenza fin da quando è apparso sulla terra.
Proprio di sopravvivenza invece si occupa l’altro aspetto del documentario, quella filmata da Maxim Abrugaev: degli indigeni della Jakuzia si avventurano, favoriti dalla primavera artica, nei territori della Nuova Siberia alla ricerca dell’oro bianco, ovvero quello che costituisce le zanne di Mammut. Gli uomini si avventurano nelle terre selvagge alla ricerca del prezioso materiale, affrontando le avversità e la natura matrigna, combattendo anche con i proprio demoni interiori e soprattutto con la propria coscienza.
La videocorrispondenza tra i due registi, il siberiano e Christian Frei (che esplora i laboratori e intervista gli scienziati), che a tratti ricorda il videodiario di Jonas Mekas (videoartista lituano e grande esploratore del mezzo audiovisivo) e a tratti lo sguardo sull’immensità della natura di “Nanuk l’esquimese” (1922) di Robert J. Flaherty, mette lo spettatore di fronte all’umanità di colui che è dietro la macchina da presa, almeno fino al punto di congiunzione dei racconti paralleli, che porterà ad un finale aperto, suscettibile anche di diverse interpretazioni da parte del pubblico.
Le vedute artiche, poi rifinite in studio e accompagnate dalla sobria ma incessante musica di Max Richter, proseguono in modo mirabile la lunga tradizione documentaristica internazionale, regalando sempre qualcosa in più rispetto al materiale sempre più facilmente reperibile in rete, confermando la tesi secondo la quale la mano dell’autore nel cinema anche non narrativo segni decisamente ciò che può essere visto; dalla poesia del bianco e del grigio dell’artico si viene condotti attraverso un complesso racconto sul mondo contemporaneo che implica temi scottanti (letteralmente) come il riscaldamento globale e il progresso talvolta fine a se stesso della scienza, insinuando il dubbio e la fascinazione in chi guarda.