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Le personali di Bato e Matta: l’Uno e il Molteplice.

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Tornano alla Galleria Rvb Arts le mostre personali di A.Matta e Bato. A ben vedere, sebbene personali, le mostre degli autori sono accomunate da un unico emblematico problema: le distorsioni del visivo. Fino a che punto puo’ distendersi una visione che è un’alterità dal fattuale? Fino a che punto puo’ chiudersi una vista e come conseguenza necessaria aprirsene un’altra?

A questi quesiti, anche se con le loro differenti tecniche pittoriche, mira a rispondere la mostra. Una risposta? Questo è poi da vedere, se davvero esistesse una risposta, se davvero esistesse la parola “fine” allora non avrebbe alcun senso un’indagine pittorica; a proposito di questo, la mostra si presenta come esempio lampante della tensione che coinvolge l’arte nel non dare soluzioni ma nel problematicizzare, nell’essere allo stesso tempo risposta e non risposta, identità e differenza.

“Una cosa è importante: scuotere ciò che comunemente viene chiamato realtà attraverso mezzi allucinatori non adattati, con il fine di cambiare le gerarchie dei valori del reale. Le forze allucinatorie fanno breccia nell’ordine dei processi meccanici; introducono dei blocchi di “a casualità” in questa realtà che è stata assurdamente presentata come una”, cosi’ C.Einstein parlava in riferimento ai lavori pittorici di André Masson, proprio allo stesso modo le opere di Bato e Matta presentano questo carattere ribelle di non far apparire la realtà come un tutto, come una sintesi approssimativa e maggioritaria di ciò che è oggetto, empiria, fattualità.

In Bato questo emerge attraverso la rievocazione dei simbolismi assirobabilonesi e la divinità di Ishtar (Drago di Ishtar, Leone di Ishtar). Se in Bato la distorsione del visibile si spinge all’essenzialità, alla ricerca della funzione prima e dell’essenza delle cose, in A. Matta il discorso si complica. In questo caso si aggiunge, alla visione istantanea, quello che accade quando si ha il tempo di fare esperienza con la realtà, di osservarla non di primo impatto ma di fare abitudine della stessa. Una sedia, un tavolo si dilata e si comprime, si moltiplica e rappresenta l’inconsistenza della stabilità nella realtà (Memoria collettiva, Dialettica). Analogicamente a F.Bacon le opere di A.Matta si presentano come un grido, lo stesso di Innocenzo X in Ritratto(1953) che manifesta il suo sconforto di fronte all’invisibile. Il grido è una forza, una tensione, si grida quando si ha paura, quando si sente dolore, insomma quando non esiste una soluzione, una sintesi. Insomma l’opera d’arte, le opere degli artisti, sono la testimonianza di questa tensione; è come se unissimo due calamite di segno comune: identità e differenza. Da una parte c’è la visione,l’ottico retinico dall’altra, l’altro dal dato. Questo è più evidente in Matta che in Bato, in questo caso. Quanto mai appropriata la metafora delle calamite di segno comune, infatti, si tratta proprio della comunanza che è che lega l’identità alla differenza. Non si puo’ pensare che la vista si risolva nel dato, non si puo’ pensare che le opere servano semplicemente per rappresentare, le opere parlano e lo fanno se non diventano un “Io” ma sono un “Noi”. Immanenti le opere parlano della storia, della realtà, problematizzano qualcosa e lo fanno mantenendo insieme identità e differenza, esse sono cose, oggetti, quadri ma che allo stesso tempo non sono mai la stessa cosa, cambiano, comunicano le alterità di ognuno di noi e lasciano parlare tutti diventando testimonianze preziose dei pensieri di ognuno di noi.

Ancora una volta la Galleria Rvb Arts regala riflessioni sull’importanza sociale dell’arte e in particolare con esempi pittorici di artisti in grado di arrivare al nocciolo di ogni creazione artistica e di ogni dilemma metafisico. L’Uno e il Molteplice,l’identità e la differenza, una vista e le viste di ognuno di noi questo rende l’opera d’arte immune allo scorrere del tempo, esse tacciono, non sanno parlare, dove il non saper parlare sta nel non sapere sintetizzare un singolo momento ma di averli tutti dentro di sè, cosi’ come indicava L.Wittegenstein nella settima proposizione del suo Tractatus ” Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”.