Benvenuto “Cellini”, finalmente un’opera che può veramente dirsi per “giovani” e per “i giovani”. Il regista Terry Gilliam, il visionario regista, che ha reso possibile il miracolo di trasformare un’opera, pur meravigliosa come quella di Berlioz, in un vero capolavoro d’arte visiva, era stato chiaro: «Penso che l’opera sia soltanto per ricchi. I giovani non possono permettersela. Rimane uno spettacolo per le élite».
È vero, la cultura dell’opera è per le élite. Per colpa di un saccentismo da sagrestia di molti interpreti e presunti esperti mammasantissima che si ritengono numi tutelari di un Parnaso che si sta sgretolando sotto i loro occhi, visto e considerato che la sala si riempie sempre di un pubblico “ultra”.
La regia di Gilliam è stata fenomenale nella sua personale formulazione del bello. La rilettura in chiave circense e neogoth di un mondo romano carnascialesco è stata efficace. Senza cadere nel tranello “pane e mandolino”, il mondo di questa Roma papalina si dipana tra visioni celestiali di un Pontefice, che, in verità, somiglia molto più a un Khan pucciniano che a un Santo Padre, e la borghesia romana alle prese con figlie irrispettose.
John Osborn, Benvenuto Cellini, sembra modellato per il ruolo. Una presenza scenica degno di un attore consumato. Al sua fianco, Teresa, l’italiana Mariangela Sicilia, che sembra quasi divertirsi nel portare in scena un personaggio bizzoso eppure profondamente innamorato come questo. La sua voce celebra questo incanto romantico tutto femminile e giovane. Una voce potente, che ghermisce il pubblico e lo fa sognare. Ascanio, Varduhi Abrahamyan, nella sua aria sola certifica quello che aveva perfettamente dato a intendere fin dalle prime battute, cioè di essere un ottimo cantante e anche un’ottima spalla.
Questo Cellini, che ritorna in scena per l’ultima volta il 3 aprile, e che sarebbe un crimine non andare a vedere, è un momento anche di interessante filosofia. In scena arrivano, questa volta, gli operai, a la Junger, in scena arriva la realtà non trasfigurata dalla visione di Gilliam, che ha dalla sua una natura anglosassone, ecco, gli operai, appunto, non sono edulcorati in pastorelli silvani. L’officina, la realtà, una specie di sogno di Gilliam che ondeggia tra Wagner e Junger, non diventa un paradiso. Resta una realtà, vera e dura e anche cruda.
Insomma, sul palco, insieme agli acrobati, alle esplosioni di coriandoli, al gioco di luci di Paule Constable, c’è l’Arte, quella vera. Non andare sarebbe una sconfitta, anzi di più, un crimine.