Bruno Aprea, direttore d’orchestra, sarà all’Eliseo l’8 e il 15 maggio per i due concerti che lo vedranno dirigere musiche di Brahm e Beethoven.
Aprea ha voluto puntare il dito sulle aree anche inesplorate della cultura italiana, spronando i ragazzi a seguire le proprie inclinazioni.
Da ragazzo ha avuto il piacere di lavorare con Sergui Celibidiache. Oggi ha l’onore di poter guidare delle orchestre. Cosa pensa di aver catturato da quell’esperienza e quali sono i tratti che caratterizzano, a suo avviso, il suo stile da direttore?
Karajan sosteneva che per guidare un’orchestra non fosse sufficiente essere “direttivo”, ma parlava della necessità di entrare in “sintonia” con gli orchestrali. Arrivati a quel punto, il maestro parlava di un’orchestra come di “uno stormo di uccelli” che si muovono all’unisono. Lei guida la sua orchestra o si lascia trasportare?
Per i due appuntamenti al Teatro Eliseo, dell’8 e del 15 maggio, incontriamo due campioni come Johannes Brahms e Beethoven. Due universi sonori simili, titanici eppure profondamente intimi. Perché questa scelta?
Lei ha girato tutto il mondo. Per anni è stato il direttore artistico del Palm Beach Opera. Ecco, cosa nota di diverso rispetto al modo con cui il resto del mondo si avvicina alla cultura rispetto all’Italia? La musica classica, di là dal mare, è ancora un mondo per “parrucche bianche”?
I cartelloni delle più grandi sale da concerto in Italia ripropongono ogni anno le stesse opere, quasi sempre gli stessi autori, rischiando così di sfiorare la monotonia. Una cosa che, alla fine, non incentiva il pubblico ad andare. Tanto meno i ragazzi. Ad un giovane direttore d’orchestra lei se la sentirebbe di dire di osare? Di presentare brani che a primo impatto possono sembrare difficili o impopolari qui da noi? O gli consiglierebbe di restare nel solco della “tradizione”?