Una Traviata che ha il sapore di Valentino, di lusso e buon gusto. Una Traviata magistralmente diretta da una visionaria e post romantica Sofia Coppola.
La Coppola pare aver capito bene che Violetta, così come Azucena e Rigoletto, è una emarginata sociali. Il simbolo della rivolta che la Duplessis incarna viene sottolineato con magistrale determinazione nella forza scenica complessiva, ma non dalla storia d’amore.
Come ha sottolineato Marco Beghelli: la Traviata è l’ultima opera nella quale Verdi da sfoggio di un’arte belcantistica notevole. Da adesso in poi, l’autore abbandona lo spettro dei virtuosismi vocali per andare verso una dialettica musicale diversa: dialettica.
Certo il primo atto è il primo che si possa dire tradizionale, nel secondo e nel terzo c’è un procedere verso le diafane emissioni della morte di Violetta. Un percorso che viene elegantemente sottolineato dalla voce di Maria Grazia Schiavo che ha un tono vocale eccezionale e ben gestito. Lascia, invece, stupiti il giovane Germont, Chacon-Cruz, che non sembra avere avuto le doti necessarie per interpretare i duetti d’amore scanditi dal battito del tempo ternario nel I e nel III atto che sono deboli.
Giovani Meoni, il vecchio Germont, riscuote un successo meritato. Con le sue arie si è ritagliato un posto di primo piano nel cuore del pubblico che ha saputo apprezzare la sua maestria e padronanza della voce. Una padronanza che ha saputo far rifulgere di luce nuova un personaggi che, solitamente, finisce per essere incompreso ma che, questa volta, riesce a far capire le sue “ragion di Stato”.
Un sincero applauso va alle scene: maestose. Nathan Crowley ha dato del suo meglio trasformando il palcoscenico del Costanzi ora in una sala da ballo parigina, ora in una villetta di campagna che richiamava Combray.