“Il Piave mormorava calmo e placido, al passaggio dei primi fanti, il 24 maggio…” Era il 1915. L’Italia faceva il suo ingresso nella Prima Guerra Mondiale. Cento anni dopo l’Italia si ferma, per un minuto, alla 15 in punto. Si ferma persino il calcio. Le reti radiotelevisive trasmettono il solenne “Silenzio” militare in contemporanea, su iniziativa della Presidenza del Consiglio. Non è un giorno di festa, in realtà. È un giorno per ricordare l’evento che ha cambiato la storia del nostro paese, nel quadro del mutamento ben più ampio che la Prima Guerra Mondiale, nella quale l’Italia entrò con un anno di ritardo, determinò nella storia d’Europa e del mondo interno, sotto innumerevoli profili, non solo geopolitici. Basti pensare all’incredibile sviluppo tecnologico determinato dagli eventi bellici.
Ricordare, studiare, capire. E anche onorare. Perché la guerra vittoriosa, la Quarta Guerra d’Indipendenza, determinò lutti e sofferenze, oltre a rafforzare l’identità nazionale in un Paese istituzionalmente molto giovane. Nessuno ha inteso, almeno per ora, fare del Centenario un giorno dominato dalla retorica. Nessuno ha dimenticato l’appello di Papa Benedetto XV contro l'”inutile strage”. Piuttosto un po’ di retorica si è fatta sulla “catastrofe della modernità”. Per questo appare stonata l’iniziativa delle Province autonome di Trento e Bolzano, che hanno scelto di esporre il Tricolore a mezz’asta in segno di lutto. Un’iniziativa, questa sì dal sapore retorico e dal retrogusto politico. Perché le guerre sono sempre anche un lutto. È scontato. Così come è scontato che a Trento e Bolzano non ci fu soltanto irredentismo, ma anche scarsa comprensione del perché si dovesse lasciare il multinazionale impero asburgico per diventare italiani anche di passaporto. Cent’anni fa i sentimenti erano molti e non sempre convergenti. E sicuramente il dibattito tra interventisti e neutralisti riguardò minoranze elitarie e non il popolo. Quello entrò in campo dopo.
Nel Centenario c’è spazio per analizzare e ricordare tutto. Anche il dramma dei fucilati per diserzione, spesso sbrigativamente, che il Parlamento proprio in questi giorni ha opportunamente riabilitato. C’è anche spazio per ricordare da un lato l’eroismo delle portatrici carniche, dall’altro il dramma umano dei trentini italiani arruolati di leva nell’Esercito austroungarico, che rientrarono nelle loro case da sconfitti in una Nazione vittoriosa. E di paradossi se ne possono ricordare tanti. Benedetto XV era affranto non solo per le centinaia di migliaia di morti, ma anche perché quei morti, da una parte e dall’altra, erano nella stragrande maggioranza cattolici. Non tutti. Le armate contrapposte schierarono con le truppe i cappellani militari per l’assistenza religiosa. Cattolici, protestanti ed ebrei da parte austriaca. E anche l’Italia dovette costituire un Rabbinato Militare per i suoi pochi ma eroici soldati israeliti, a cominciare dal diciassettenne caporale Medaglia d’Oro Roberto Sarfatti, figlio di Cesare e di Margherita. Fratelli di fede, come sempre accade nelle guerre, gli uni contro gli altri armati.
Ma, al di là della bella quanto naturalmente retorica “Canzone del Piave”, scritta a guerra finita da Ermete Giovanni Gaeta (in arte E.A.Mario), ha un senso cento anni dopo tentare di riscrivere la storia in modo divisivo? Forse è giunto il tempo della analisi serena. Difficile, è vero, per eventi di questa portata. Difficile soprattutto se anche la storiografia accademica fatica a mantenere un profilo scientifico. E preferisce schierarsi, anche nel “comprendere” le ragioni di Trento e Bolzano. D’altra parte – ricorda Marco Mondini (La guerra italiana, il Mulino) – “fino agli anni Sessanta la guerra è stata raccontata come una sublime prova di concordia e di unità nazionale durante la quale il popolo in armi era stato guidato alla vittoria da uomini politici integerrimi, generali autorevoli (sia pure con qualche scelta discutibile) e da una borghesia entusiasta che aveva affollato i ranghi degli ufficiali di complemento. Dagli anni Settanta in avanti, con l’avvento di una nuova generazione e di studiosi legati alla contestazione e ai movimenti di sinistra, i generali sono divenuti carnefici con velleità dittatoriali e i soldati vittime inermi, ansiose solo di sfuggire al combattimento, facendosi passare per pazzi o disertando”.
Entrambe le letture appaiono desuete e fuorvianti, anche se quella “di sinistra” è evidentemente ancora molto influente. Non è in fondo il “Generale” di Francesco De Gregori l’archetipo pop e poetico dell’inutile guerra? Lettura fuorviante perché, per contrastare la retorica, sottovaluta un elemento fondamentale della Grande Guerra nella sua declinazione italiana, la partecipazione popolare. “Ciò che conta maggiormente in una guerra totale e di massa” – rileva Mondini – è “il consenso delle popolazioni che ne sopportano i sacrifici e la loro capacità di convincersi (e spesso illudersi) che combattere e morire sia necessario, giusto e nobile”. Cent’anni fa per gli italiani fu così, ricorda Mondini: “La maggior parte di coloro che vennero travolti dalla guerra, fossero soldati al fronte o donne mobilitate nelle retrovie, fece la propria parte fino in fondo”. Forse questo e solo questo conta, cent’anni dopo.