Sarà in scena fino al 23 ottobre al Teatro degli Audaci la pièce ”Il nome della rosa”. Un adattamento teatrale del romanzo di Umberto Eco.
Il testo è un esperimento. Un abile e audace esperimento stilistico e artistico che prelude un nuovo orizzonte di senso per il testo di Eco. La proposta del regista Pablo Maximo Taddei di portare una nuova espressione nell’evento teatrale, facendo emergere un senso più nascosto nelle parole dalle parole stesse, risponde perfettamente alla poetica di questo teatro; una poetica che ha fatto del desiderio di provocare una cifra stilistica assolutamente pregevole.
Avvinarsi a questo spettacolo da profani è pericoloso. È necessario perlomeno aver letto una sinossi del testo originale. E non è un male. Talvolta uno sforzo in più fa gustare meglio il risultato finale.
Tante sono le novità intriganti. Tutte tese a un obiettivo solo: sottolineare, senza mezzi termini, l’importanza del suono.
È, a tutti gli effetti, un’opera sonora. Non un’opera per come la conosciamo, ma un vero proprio monumento sonoro. Un simbolo, nel termine greco di elemento di unione, tra il suono, unico nel suo genere, e non fisso, e la parola, elemento invece fisso e transitorio al tempo stesso: vedi il caso di siringa o di casino.
Ecco, quindi, la tecnica degli psicosuoni, una trovata del regista, messa in scena da Flavio de Paola, che, in modo quasi negromantico, fa emergere da dentro di sé spiriti complessi che arrivano, a volte, anche a contraddirsi in scena. Danilo Zuliani e Emiliano Ottaviani non solo eseguono, ma danno anche prova della conoscenza fisica dell’attore. Si sono mostrati, quindi, in grado di essere comunicativi anche con il corpo.
Corpo che è stato, ed è, il solo medium rimasto agli attori coperti da una maschera. Una maschera che il regista vuole essere, non solo tributo, ma anche evocazione di una lirica greca moderna.
In sostanza, questo spettacolo è un ulteriore tassello nel lungo lavoro che attende questo teatro di periferia, che ha avuto il coraggio di riempire un vuoto culturale lasciato lì non solo dalla latitanza di artisti che si sono sempre detti impegnati nella rinascita della città, ma che si sono sempre guardati dal farlo realmente; ma è anche una sibilante frustata alla noia prodotta dall’abitudine. Ed è anche un bene che ci sia un attività così significativa in un quartiere dove ci sono più centri commerciali che librerie.
Ed è veramente una brutta, bruttissima, imperdonabile mancanza che le amministrazioni politiche, anche quella odierna, non si siano date da fare per sostenere l’arte. Perché se tutto è politica, e l’arte è tutto, allora l’arte è politica. E dove manca una cultura politica manca la civiltà, e dove manca la civiltà non ha senso il teatro.
E non si può accettare, non si deve accettare che tutto questo diventi un privilegio di pochi.