Dall’altra parte del bosco, uno scritto di Neil LaBute per la regia di Marcello Cotugno e l’interpretazione di Paolo Giovannucci e Chiara Tomarelli.
Il testo si apre su una casa che accoglie lo spettatore, facendolo accomodare tra grandi classici, ultime copie del New Yorker, vestiti spiegazzati e coperte; il pavimento, supporto di fogli sparsi – pagine di libri, appare come simbolo che riconduce colui che vi si addentra ad un vissuto ferito.
Veniamo introdotti alla storia da una donna vestita di rosso, tanto distinta quanto persa nel suo bere sincopato, fuori piove e improvvisamente: bussa qualcuno alla porta; Betty corre ansiosamente, prova ad aprire una porta che non si apre, accoglie il fratello: Bobby, un uomo particolare che per il look sarebbe potuto tranquillamente essere un bohèmien di qualche secolo precedente; Bobby entra con una cassa di birra, Betty riempie il suo bicchiere di vino rosè, Bobby stappa la seconda bottiglia, Betty beve.
Dalla prima scena notiamo una ridondanza di elementi, quali quelli del bere ad esempio, che rendono il tutto abbastanza caricaturale, dando l’impressione di una mancata sostanza che possa riportare – alle profondità relazionali – le distorte dinamiche fraterne qui riproposte; il regista fa ricorso a superfici vane, esito di un processo che non viene realmente indagato, e a schemi di recitazione accentuatamente marcati a discapito di una possibile credibilità.
In questo spettacolo, la semplicità con la quale LaBute vuole indagare le relazioni umane, viene sostituita dal superficiale, il quale non riesce a cogliere la complessa semplicità dello schiudersi in incontro di due o più universi – ai quali l’incontro stesso può venire a mancare; la divisione – unione dei due fratelli, la loro relazione passivo – aggressiva viene si, in un certo senso, indagata ma solo in un succedersi di specchi opachi che non riesce a riflettere pienamente il nucleo relazionale e individuale di cui il testo.
Saltando da una verità- menzogna all’altra perdiamo il centro del senso e quello a cui assistiamo – periferia del sentire – diviene solo una caccia alla verità più agghiacciante iniziata con un tradimento, rinforzata con delle violenze continue, culminata in un omicidio, e resa una buffonata dal finale incestuoso e dal suicidio di lei; viene da chiedersi quale sia il senso: il semplice stupore di uno spettatore mediamente borghese o radical-chic? E si appresta alla mente un vago ricordo di quello che è stato Nymphomaniac di Lars Von Trier più che un Blue Velvet lynchiano o un Liquid love baumiano, citati entrambi in maniera fuorviante nella presentazione dello spettacolo.