Home teatro sipario Onirico, certamente, il “Der Park” firmato Strauss-Stein.

Onirico, certamente, il “Der Park” firmato Strauss-Stein.

1288

Si attendeva da tempo di presentarlo in altre lingue e finalmente, dopo l’accurato lavoro di traduzione di Roberto Menin e con la produzione del Teatro di Roma, lo spettacolo va in scena in italiano al teatro Argentina dal 5 al 31 maggio 2015.
Scritto nel 1983 da Botho Strauss e rappresentato l’anno dopo a Berlino, il testo non è solamente dedicato a Peter Stein ma egli ne è in qualche modo coautore o meglio coideatore, a maggior ragione se consideriamo l’esperienza condivisa nel mondo del teatro che fu per loro lo Schaubuhne, fondato nel 1972 a Berlino Ovest.
“Schau” significa “vedere” e “buhne” “palco”, dunque un’ottima traduzione della parola “teatro” che, per etimo e natura, comprende sempre un poter vedere, un guardare.
Particolarmente difficile risulta allora distinguere colui che scrive un dramma da colui che lo dirigerà sulle scene, considerato che qui è il testo stesso a presupporre una determinata regia rispetto alla quale disporsi, non tanto di conseguenza, quanto in previdenza e di comune accordo con essa.
Se ne esce quasi intontiti, attoniti, sospesi proprio come d’altronde sembrano essere sospese tutte le 36 scene che si susseguono per una durata complessiva, fra atti ed intervalli, di quattro ore e mezza.
Ma sul palco l’avvicendarsi dei vari quadri scenici non obbedisce alle normali leggi temporali. Del tempo di “Der Park” non si può misurare la quantità come si fa con un’estensione di lunghezza, da un punto A ad un punto B. Pertanto, poco importa che ogni scena venga prima o dopo l’altra: tutte nell’insieme concorrono a delineare la metamorfosi. “Niente risveglio. Solo metamorfosi” come appunto sentiamo dire da Georg. L’atmosfera allora non può che essere di immobilità. Si veda la recitazione, condotta sempre sullo stesso piano. Il ritmo dell’azione, lento ma incessante. Gli elementi scenografici, che si ripresentano sempre diversi ma sempre uguali seppure nella diversità delle circostanze. Il continuo ripetersi dell’atto stesso del cambio scena, che crea un effetto straniante.
Il tempo è in relazione a come i personaggi o gli uomini o gli dei (ammesso che vi siano delle differenze) lo attraversano, lo svolgono e lo deformano.
Così, se nello scespiriano “Sogno di una notte di mezz’estate” la follia, il sogno appunto, per quanto concreti, infine si sciolgono, si risolvono sul far del giorno e l’ordine torna a risplendere, all’illusione straussiana non c’è davvero un confine. La realtà è questa stessa illusione. Nessun deus ex machina è in grado di intervenire e dipanare gli intrecci perché non c’è alcuna verità alla quale tornare a prestar fede nel momento della fine del sonno. Quello del risveglio è un orizzonte che, almeno nello spettacolo, non si dà.