Home teatro Stranieri – Gianluca Merolli teatro Argot 3 – 7 aprile

Stranieri – Gianluca Merolli teatro Argot 3 – 7 aprile

636

STRANIERI

Dal 3 al 7 Aprile 2019

di Antonio Tarantino 
regia Gianluca Merolli
con Francesco Biscione, Paola Sambo e Gianluca Merolli
scene Paola Castrignanò
costumi Domitilla Giuliano
musiche Luca Longobardi
luci Marco Macrini
assistente alla regia Luca Carbone
organizzazione e foto Pino Le Pera

prodotto da Andrea Schiavo/H501
con l’ospitalità in residenza di Settimo Cielo / Teatro di Arsoli

Immaginarono che ogni uomo è due uomini e che il vero è l’altro, quello che sta in cielo. Immaginarono anche che i nostri atti gettino un riflesso invertito, di modo che se noi vegliamo, l’altro dorme, se fornichiamo, l’altro è casto, se rubiamo, l’altro dà del suo. Morti, ci uniremo a lui esaremo lui.
 (L’Aleph, Jorge Luis Borges)

Un uomo si è barricato nella sua casa d’oro, pronto a difendersi da chiunque voglia ferire la sua solitudine, sia costui venditore, ladro, avventore, fedele di un dio sbagliato: di sicuro è uno straniero. A bussare alla sua porta insistentemente sono invece sua moglie e suo figlio.

Ma il titolo non trae in inganno, effettivamente quei due parenti sono stranieri, appartengono cioè a un altro stato, cittadini di un altro paese, quello dei morti. Tenuti in vita grazie a ricordi e agli abiti che l’uomo ha conservato morbosamente in tutti questi anni, sono oggi tornati per accompagnarlo nell’ultimo ballo possibile. L’autore disegna questo distacco ponendo l’uomo dentro casa e gli altri due fuori di essa, raccontando distanze presunte e assunte, erigendo confini d’azione delimitati dai protagonisti stessi, che verranno cancellati solo nell’attimo dello svelamento, della presa di coscienza. Il testo possiede qualcosa di ciclico, una struttura che alterna dentro/fuori, come a ricordarci che la storia è circolare, così come il tempo e che nulla di ciò che avviene non è già avvenuto, che pur tuttavia è in movimento: il nostro spazio d’azione, il nostro ruolo. Erede di una lezione che affonda le radici in Borges e Bernhard, Tarantino tratta il tema tanto attuale della mistificazione dell’altro senza alcuna retorica, usando come metafora quella della famiglia. E dunque evitando disquisizioni politichine, diventa prepotentemente politico. Egli pone l’attenzione su piccole dinamiche famigliari, fatterelli di vicinato, bollette e piccole assenze utilizzando un linguaggio sgrammaticato che alterna inflessioni dialettali non sempre riconoscibili: forse moglie e marito sono emigrati da giovani, prima di incontrarsi? E il ruolo di questo padre, a cui basterebbe un alito di vento per cadere a terra, è quello d’inveire e sbraitare per far rumore, per non ascoltare il silenzio aberrante che lo sta inghiottendo. Quel silenzio che è nero come l’oscurità, in cui ci è più facile riconoscere l’altro come nemico, estraneo, piuttosto che come nostro caro, un pezzo di cuore, se non addirittura come specchio di noi stessi. Il riferimento a Borges è opportuno: sembra riesumarsi un mondo di specchi che ci moltiplicano in tanti altri distanti da noi, ma non diversi. E cos’è se non la paura a costringerci a serrare porte e ad alzare muri e barricate? La paura forse di sentire avvicinarsi i minuti precedenti al grande sonno, di sentire il guado del fiume straripare e bagnarci i talloni stanchi, di sentire raggelarsi la speranza. Ma, forse, più che la paura che arrivi qualcuno a rompere il suo scrigno dorato, questo vecchio ha paura che non arrivi proprio nessuno. La contingenza degli interrogativi posti allo spettatore non passa mai per punti interrogativi diretti: si è immersi nel buio della notte, nella beckettiana attesa di un Godot che qui arriva e assume le sembianze fatali del desiderato. Piove per tutto il tempo, come se dal cielo si volesse pulire l’aria dalle grida dei non ascoltati, come se si chiedesse che per strada non resti più nessuno, che tutti entrino di corsa in casa, una casa qualunque, che ciascuno si aggiudichi un tetto, anche non dorato. Con la speranza del ricongiungimento si chiude il cerchio di questa drammaturgia cinica e spietata. Dopo il tempo incessante del monologare rancori, del chiosare amarezze, apostrofando errori e giustizie, attendendosi e bestemmiandosi l’un l’altro, arriva il tempo del raccordo in cui una famiglia di non sopravvissuti a loro stessi, si riunisce come d’innanzi al banchetto delle feste.