In occasione del suo venticinquesimo anniversario, la compagnia Linga mette in scena “Tabula”, un groviglio di corpi teso e dinamico, fatto di rincorse, unioni e separazioni in cui i ballerini sembrano agitati dal vento infernale di Dante, anime in pena che vagano sul palco.
La scenografia nuda ci catapulta in un mondo distopico e assetato di memoria, ansioso di carpire e preservare qualcosa che sembra sfuggire continuamente nel corso della performance.
All’inizio è evidente un riferimento alla pittura rinascimentale: i ballerini incarnano la natura selvaggia e combattiva dei quadri quattrocenteschi. I muscoli contratti, la sofferenza dei volti, la virilità invadente pervadono la performance. Gli otto danzatori assumono ruoli molteplici, spesso complementari e respingenti allo stesso tempo. Sono prede e cacciatori, amanti e nemici, oppressori e salvatori. Tante calamite che non sanno verso quale polo dirigersi. Si cercano, ma scappano l’uno dell’altro, in una tensione crescente che ipnotizza, senza possibilità di guardare altrove, gli occhi dello spettatore. Il tema portante è in continuo cambiamento e lo si può forse rintracciare nella ricerca costante di quell’equilibrio che, ogni volta che la posa plastica trovata con tanta sofferenza viene scomposta, si rivela irraggiungibile. I riferimenti classici sono inseriti con grazia e parsimonia perché ciò che realmente interessa è ritrarre il tentativo dell’uomo nuovo, moderno o addirittura postmoderno, di ritagliarsi animalescamente il suo posto nel mondo. I due lunghi tavoli grigi si trasformano in continuazione a contatto con i corpi dei ballerini e così la condivisione del desco diventa il terrore di una gabbia, l’incertezza di fronte a un muro, la protezione da un nemico. I due coreografi, Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo, ci restituiscono un prodotto che fa dell’irregolarità la sua virtù e in cui la danza si fa più che mai linguaggio universale per denunciare a pieni polmoni temi difficili e scottanti come il problema della territorialità e il rapporto con l’alterità. Uscendo dal teatro la performance rimane con lo spettatore, “Tabula” non ha ancora finito il suo incantesimo e ci si ritrova ossessionati dalle immagini animalesche create dai ballerini, dal terrore dei loro occhi in cui risuona il motto Hobbesiano “Homo homini lupus”.
Mila di Giulio