Home teatro Una Bovary con troppe domande, all’Eliseo un Flaubert indeciso

Una Bovary con troppe domande, all’Eliseo un Flaubert indeciso

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«Un grande classico è uno scrittore che si può lodare senza averlo letto». Scriveva Gilbert Keith Chesterton, nel 1908. Più di un secolo dopo si rischia di poter rileggere sempre lo stesso libro ma di trarne ogni volta un messaggio, una lettura diversa. Un rischio che è più una libertà che un pericolo.

Così è stato per la “Madame Bovary” in scena al Teatro Eliseo, fino al 6 marzo, per la regia di Andrea Baracco e la riscrittura di Letizia Russo. Nelle vesti della signora Bovary, Lucia Lavia.

Bovary è una storia non complicata ma molto complessa. Confrontarsi con un testo come questo rischia di far schiantare regista e drammaturgo.

Caricarsi un testo così complesso sulle spalle ha ottenuto il solo risultato di tagliare elementi fondamentali dell’armonia totale del libro.

Si prenda per tutti il caso della scomparsa di Justin, unico vero amore che Bovary riesce a conoscere. Un amore che si svende in finale di libro quando la signora è costretta a cedersi per ottenere il veleno. Contro Hyppolite che nel romanzo viene nominato, a tutti gli effetti, una sola volta.

Homais, il farmacista giacobino, con tendenze politiche, Gabriele Portoghese, ricorda troppo il “Pasolini” di Barberio Corsetti, andato in scena a Pietralata.

Alcuni dialoghi che finiscono in un discutibile turpiloquio sono del tutto fuori luogo per un modus eloquendi che dovrebbe essere ben più posato.

A meno che non si debba parlare di “Madame B, secondo …” allora si deve essere un po’ più filologici nella scrittura, altrimenti si parla di libera interpretazione.

Scontrarsi con un testo coinvolgente come questo è pericoloso, il bisogno del “modello” non viene meno, e dovendo andare oltre proprio questo “modello” si finisce col tornare agli esempi che si voleva superare guardando al modello stesso; in sostanza, si finisce per leggere il “modello” con i propri esempi, e fare di un capolavoro un manifesto per le proprie scelte ideologiche.

Si prenda il caso di Bovary. È vero che pronuncia la famosa frase sulla condizione della donna, «ma una donna ha continui impedimenti» ma non è un caso di proto-femminismo. Lo stesso Flaubert chiarisce perfettamente che Bovary non è vittima degli altri ma è vittima di se stessa.

Lucia Lavia recita bene. Ma sfugge il motivo del continuo surmenage di questa Bovary, sempre coinvolta in una specie di corsa affannosa contro il disastro. Tra urla troncate, movimenti bruschi e pianti che eccedono la figura di una donna complessa ma pur sempre ben radicata nella sua epoca; in sostanza, Bovary voleva essere più regina della regina, non si sarebbe mai messa a urlare così.

Il rapporto con la figlia è complesso, ma non di opposizione così violenta. E Charles Bovary è un perdente, ma non così inerte nei confronti della vita.

Ancora, perché Lheureux, Elisa di Eusanio, che ha tenuto il palco meravigliosamente, dovrebbe essere un incontro tra un Coppelius un Drosselmeyer, con una declinazione neogoth?

La scenografia da teatro di ricerca mal si concilia con uno spettacolo che di ricerca non ha la durata. Non basta “il dolce suono” di Maria Callas o Berliotz ha dare una tonalità mistica a qualcosa che, pur essendo molto bella, non riesce a trasmettere la giusta profondità.