Louis-Alexandre Berthier, chi era costui? Era il generale francese che il 10 febbraio 1798 invase Roma, sottraendola al dominio temporale di Pio VI. La prima Repubblica Romana d’età moderna fu poi proclamata il 15 febbraio 1798. Dopo le annessioni del 7 marzo seguente (Repubblica Tiberina e Repubblica Anconitana), la Repubblica Romana arrivò a confinare con la Repubblica Cisalpina e il Granducato di Toscana a nord, con il mar Tirreno a ovest, con il Regno di Napoli a sud, con il mar Adriatico a est. Accadeva, naturalmente, in età napoleonica. Presto Roma tornò papalina.
Testo di Alberto Maria Ghisalberti per
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La rivoluzione francese sorprese il governo romano intento a un programma di lavoro e di riforme. Dapprima disorientato, come i più tra i governi italiani, di fronte all’improvviso evento, la politica anticlericale di Parigi lo costrinse a considerare con altro occhio le cose. La proclamazione della costituzione civile del clero, che Pio VI non volle approvare (marzo 1791), e l’annessione di Avignone e del Contado alla Francia (settembre) resero difficili i rapporti tra Roma e Parigi. La propaganda degli agenti francesi, assecondata dagli elementi novatori romani, provocava reazioni da parte del popolo, fedele alla propria religione e al proprio sovrano, turbato dalle notizie che venivano di Francia. Evento grave l’assassinio, consumato il 13 gennaio 1793, di N. Hugon de Basseville (v.), che provocò minacce da parte della Convenzione e la cessazione definitiva d’ogni rapporto tra i due stati.
La calma apparente succeduta al tragico fatto veniva rotta l’anno dopo da agitazioni che rivelano qua e là l’esistenza di focolai rivoluzionarî, a Bologna, a Macerata e nella stessa Roma. Ivi, però, si stentava a credere a più gravi possibilità, tanto che Pio VI lasciava si trascinassero senza concludersi le iniziate trattative con Torino per una lega italiana. L’avvento di Bonaparte e la prima campagna d’Italia mutano di colpo la situazione. Inutilmente Roma, disarmata, proclama la propria neutralità. Le milizie vittoriose del Bonaparte entrano nello stato romano e applaudite e aiutate dai giacobini locali occupano l’Emilia e la Romagna. Un duro armistizio concluso il 23 giugno 1796 strappava le legazioni al pontefice, che scontava ora l’incerta politica seguita finora. Le assurde speranze d’una riscossa austriaca illusero Pio VI di poter rompere la tregua e ricacciare i Franco-cisalpini. Ma le sue milizie male affidate al Colli furono rotte a Castelbolognese, doloroso preludio ai gravi patti di Tolentino (19 febbraio 1797), che costringevano il pontefice a irrimediabili rinunce di principio e a umilianti tributi. Né la sanzionata perdita di Avignone, del Contado e delle Legazioni, né le nuove spoliazioni e cessioni garantivano la male acquistata pace. Infatti poco dopo Ancona insorgeva a repubblica e Senigallia e Pesaro la imitavano. I fermenti di disordine si preparavano a Roma stessa, ove l’uccisione dell’addetto militare francese Duphot (17 dicembre 1797) offriva al direttorio il pretesto per un nuovo intervento a danno del pontefice.
Respinta ogni offerta di trattative, il 9 febbraio 1798 il generale Berthier giungeva a nove miglia da Roma. Il governo deliberava di non resistere e all’indomani i Francesi occupavano Monte Mario e Castel Sant’Angelo. L’ 11 guardie francesi vigilavano il Campidoglio e il Quirinale. Ma il popolo, contrariamente all’attesa, non insorgeva e guardava con scarso interesse lo spuntare di tre modesti alberi della libertà, attorno ai quali s’ebbe qualche piccolo tumulto e qualche innocua gazzarra di liberali. Con il pretesto di provvedere alla tutela dell’ordine, il Berthier fece allora disarmare la truppa pontificia, arrestare impiegati e funzionarî, prendere ostaggi e imporre taglie e sequestri. Ma per entrare in Roma volle prima una qualche azione popolare, spontanea o imposta che fosse. E allora il 15 febbraio i patrioti s’adunarono al Foro Boario alla presenza dei generali francesi Cervoni e Murat e fecero dichiarare decaduto con rogito notarile il governo temporale. Nacque allora la Repubblica Romana con ben sette consoli, che il Cervoni designò. Essi furono, liberali della vigilia, gli avvocati Riganti e Costantini, il duca Bonelli, il professore Pessuti, il causidico Bassi, i possidenti Maggi e Stampa, ed ebbero un segretario intelligente e deciso nella persona dell’ex-prete Bassal.
Sorse sul Campidoglio allora un nuovo albero della libertà, accanto al quale si spiegò il tricolore bianco, rosso e nero, e il Berthier si decise a fare, invitato, il suo solenne ingresso da Porta del Popolo (16 febbraio).
Belle le promesse nell’allocuzione del Berthier, fiorita di classiche memorie, ma dura la realtà di questo dominio straniero. Chiassate democratiche e forzate cerimonie religiose accompagnarono l’insediamento del consiglio consolare. Rinnovata l’amministrazione civile e giudiziaria, vennero preposti agli affari esteri Carlo Corona e agl’interni E. Q. Visconti, in realtà costretti all’obbedienza dei militari francesi.
Le nobili e ferme proteste di Pio VI, prigioniero nel Vaticano, di non poter rinunciare a una sovranità che gli veniva da Dio, né poterono impedire questi fatti, né gli risparmiarono l’esilio da Roma (20 febbraio). Il forzato esodo del pontefice, deprecato inutilmente dai consoli, esasperò il popolo, già irritato dalle impostegli mascherate repubblicane e preoccupato della grave crisi economica. Il 25 febbraio insorgeva tumultuoso il Trastevere al grido di “Viva Maria e viva Pio VI”. I rioni della Regola e dei Monti seguivano, preludiando a più gravi moti insurrezionali nei Castelli Romani. Feroci gl’insorti nel difendersi; spietati i Francesi nel reprimere.
I cardinali vennero allontanati da Roma (e l’Albani e l’Antici rinunciarono alla pugna), i più compromessi tra i cittadini furono arrestati, la popolazione fu disarmata, la vigilanza nella città resa severissima, mentre le fucilazioni incessanti (24 in un sol giorno) diffondevano il terrore. La calma tornò così in Roma.
Intanto Ancona, costituitasi a repubblica il 17 novembre 1797, si univa a Roma, che s’accresceva anche del territorio umbro e si reggeva con una costituzione copiata sulla francese dell’anno III. La sostanza giacobina, rivestita di forme classiche, della nuova costituzione era solennemente consacrata nella festa del 20 marzo in piazza S. Pietro. Non direttori, ma consoli si chiamarono i cinque membri del potere esecutivo (Angelucci, De Mattheis, Panazzi, Reppi e Visconti), Tribunato i Giuniori (i Cinquecento di Francia), Senato i Seniori o Anziani. Ma in realtà dominarono commissarî e generali francesi, così a Roma come negli otto dipartimenti del Cimino, del Circeo, del Clitunno, del Metauro, del Musone, del Tevere, del Trasimeno e del Tronto.
Le spese per il corpo francese d’occupazione, le ladrerie del Masséna e d’altri capi maggiori e minori, le tasse, le esazioni e le taglie, lo svilimento del denaro, il disordine nell’amministrazione e il sovvertimento legislativo aggravarono le condizioni ed esasperarono il risentimento popolare. “Che tempo fa, Pasquino?” domandava l’anonima satira popolare. “Tempo da ladri” si faceva rispondere a Marforio. E contro gli stranieri ladri e violenti insorgevano Marino, Albano, Velletri, Terracina, Ferentino, Frosinone, provocando dure repressioni.
Di questo marasma, di questa inquietudine sperò potersi giovare Ferdinando IV di Napoli, il quale, stretti accordi con l’Austria, dalla quale si fece prestare un generale, il Mack, con la Russia, con l’Inghilterra e con la Turchia, s’avanzò, campione della fede e della legittimità, contro Roma giacobina, molto fidando nell’aiuto navale del Nelson. Roma, abbandonata dai pochi Francesi dello Championnet, fu presto occupata dalle sue tre colonne, festosamente accolte dalla popolazione. Ma il ritorno dello Championnet obbligò alla fuga il Borbone e restaurò la repubblica (14 dicembre). E i Francesi si vendicarono duramente delle violenze commesse a danno dei giacobini nel breve intermezzo borbonico.
Ma ormai davanti agli eserciti della coalizione austro-russa e all'”insorgenza” paesana crollavano le forze francesi in Italia. Cadeva la Repubblica Napoletana, effimera sorella della romana (1799), e la sua caduta non poteva non ripercuotersi su Roma, giacobina suo malgrado. Vittorie alleate e insorgenza contadina affrettarono la catastrofe. Il 29 settembre 1799 il Garnier cedeva Civitavecchia agl’Inglesi e Roma ai Napoletani, che all’indomani vi entravano, facili trionfatori, da Porta San Giovanni. Tornavano liberamente in patria i Francesi, mentre ai più compromessi tra i liberali romani si schiudevano le vie dell’esilio. Resisteva ancora eroicamente Ancona, che, però, cadeva il 13 novembre in mano agli Austriaci.
E con la caduta di Ancona spariva l’ultimo resto, dopo poco meno di due anni, della Repubblica Romana. Effimera creazione, certo, ma non inutile, ché il ricordo di quel che pur v’era di buono nei suoi istituti e nelle sue leggi, la scossa data all’ambiente vecchio e tradizionalista, l’eccitazione trasmessa al popolo non furono senza efficacia per l’avvenire.
La mostra al Museo Napoleonico