Datata 1930, questa poco frequentata commedia di Pirandello è apparentemente semplice nella struttura ma difficile nel linguaggio, come tutti i testi del grande drammaturgo siciliano,che stimola gli attori a rendere fruibile anche ad un pubblico giovane o di rara consuetudine teatrale il testo che sviluppa.
Questa è infatti una storia di una gravidanza indesiderata,una storia di provinciali trasferitisi nella capitale per motivi di lavoro,una storia di stanze affittate in comune per far fronte a condizioni economiche difficoltose,una storia di prostituzione,di perbenismo gretto e perciò crudele, di relazioni affettive difficili, rese ancor più difficili da convenzioni sociali che rendono praticamente impossibile esprimere un sentimento sincero di cui solo a tratti i personaggi, avvolti da una diffusa mediocrità culturale, sembrano capaci.
E tante altre complesse implicazioni che affondano nella psicanalisi e nel sistema delle relazioni, fino al sospetto di un malcelato e mal vissuto amore omosessuale da parte dei due protagonisti maschili sullo sfondo di un’Italia immersa nel ventennio fascista. Ed è appunto intriso di fascismo e di maschilismo più in generale il modo di pensare alla donna come oggetto di piacere che porterà ,se pur indirettamente a quello che oggi si classificherebbe come femminicidio . E di poca consolazione è una sorta di Happy end finale buono solo per pacificare le coscienze più accomodanti,ma scritto da Pirandello dopo una scena-madre della ragazza in questione all’apice della sua tragica parabola che sembra voler fungere da sipario meta teatrale. Un testo scomodo, cattivo, degno del miglior Pirandello anche se, a torto, non viene annoverato fra i suoi capolavori.