Finisce l’era Bartabas al Teatro dell’Opera di Roma. Un eone di meraviglia, durato appena una folata di giorni. Qualche ora che hanno lasciato negli spettatori una meraviglia totale. Lo spettacolo “Golgota”, andato in scena al Costanzi per 4 date consecutive, ha infatti riscosso un successo di pubblico quasi inatteso. Pur essendo enigmatico nella sua essenza più intima, lo show è stato percepito dai più a più livelli. C’è chi, infatti, ne ha colto esclusivamente il lato circense e chi, al contrario, ne ha percepito anche la chiave profondamente cultuale. La dimensione religiosa, profondamente vicina al vissuto etnico dell’attore, ha accolto, volutamente, lo spettatore, fin dal foyer del teatro, dove un’aria claustrale, carica di incenso, annunciava che lo spettatore avrebbe svestito i panni di osservatore per indossare quelli di orante. Ed è stata a tutti gli effetti una spettacolare forma di orazione collettiva, una “festa” antica, dove gli occhi di tutti partecipavano nell’eseguire un rito collettivo. I gesti rituali dei cavalli, le movenze sinuose di un ballo fuori musica, fatto solo sul suono della tensione della carne, costituiscono, infatti, la struttura di uno spettacolo che condivide l’importanza della visione e dell’ascolto. “Golgota” conduce lo spettatore in una dimensione che annuncia una passione diversa da quella di Cristo. La crocifissione di ogni sensatezza meccanica, di ogni rapporto causale, viene meno, quando sul palcoscenico un Dio Capro Cavallo prende il posto del Nazareno sulla Croce. La dimensione animale e umana si fonda, divenendo quindi una unica dimensione, proprio come Bartabas ha sempre voluto: dichiarando, anzi urlando, una umanità che gli equini possiedono già di loro. Quindi, la consunzione di ogni diversità, la divergenza, la asimmetria di questo spettacolo gotico medievale in salsa flamenca, ha spinto lo spettatore a un ulteriore viaggio in diagonale nella regione dell’ignoto, quella dove Dio può ancora sussurrare qualcosa all’orecchio o di un cavallo o di un uomo o di un Centauro. La via Crucis equina, accompagnata dal sopranista e dal liuto, aiuta lo spettatore a smettere di pensarsi unicamente infisso in sola “condizione” temporale; ma gli impone uno sradicamento immediato e successivo; solo facendo questo “salto”, questa “Kehre” heideggeriana, lo spettatore ha la possibilità di intuire il linguaggio cifrato che lo spettacolo monta pezzo dopo pezzo.
Siamo animali, consanguinei l’uno con l’altro. La morte, la macellazione rituale, ci uniscono nello spettacolo evanescente di una vita che si consuma dietro l’Auto da Fé di una candela che non vale niente. La vita umana equivale alla condizione precaria di una sillaba nella bocca di un neonato, siamo dei sospiri su un colle, almeno si cerchi di mantenere lo stile e l’equilibrio che la natura dona a tutti per diritto.