Un uomo invita a cena, a sorpresa, un suo collega di lavoro in un giorno qualunque. A casa, la moglie e la suocera preparano da mangiare senza sapere nulla dell’ospite. Da questa semplice premessa narrativa si scatena un vero e proprio studio tragicomico sugli effetti provocati da quell’angoscia che ci tiene svegli.
Lo spettacolo originale è diventato una partitura per un attore. Un assolo: i quattro protagonisti della “serata” e i loro “pensieri” più latenti saranno interpretati dallo stesso attore seduto su una sedia. Un libero adattamento del primo tempo del famosissimo e quanto mai attuale testo di Steven Berkoff, attore e drammaturgo, feroce censore dei costumi anglosassoni.
“Kvetch”, che in yiddish significa “piagnistei”, ritrae un’umanità gretta ed asfittica in un classico contesto familiare. All’interno del triangolo borghese, lui-lei-l’altro, per l’occasione “arricchito” da un’eruttante e flatulente suocera e da un amico di famiglia con un matrimonio appena fallito, si scatena un “gioco al massacro” segnato da egoismi e prevaricazioni, dove l’orgoglio individuale è sfacciatamente falso ed ambiguo. Una drammaturgia che racconta in una spiazzante ed inquietante istantanea, un contesto umano e sociale non così lontano dalla realtà quotidiana che viviamo oggi. Tutti abbiamo i nostri “Kvetch”, intesi appunto non solo come quelle “lamentazioni” esteriori, la cui funzione, la maggior parte delle volte, serve a mascherare il vero sentimento della persona. Ce li abbiamo davanti allo specchio, di fronte agli altri, ce li sentiamo dentro, vorremmo vomitarli fuori, buttarli addosso al primo che capita, ma non ci riusciamo, ci rimangono nello stomaco e legandosi tra loro creano un nodo che ci impedisce di parlare, di affermare la nostra presenza nel mondo.
Quante volte ci capita, mentre stiamo parlando, di avere nel cervello un altro dialogo “non detto”, che qualche volta ci guida e qualche volta ci protegge? Anche se quel dialogo è, a volte, più vero di quello che esprimiamo in maniera cosciente, formale e spesso ipocrita. Se solo potessimo sempre esprimere “quel pensiero”, legato a ciò che veramente sentiamo, quanto la nostra comunicazione sarebbe più vera? Ed è proprio questo il senso dell’esperimento, cercare di raccontare nello stesso momento entrambi i dialoghi, quelli detti e quelli pensati, dei quattro personaggi. La normalità o la diversità sono qui, categorie puramente immaginarie, da vecchio archivio, con effetti esilaranti e micidiali per chi sta a guardare, protetto, nel buio della sala.