Dall’ 1 al 3 febbraio in scena al Teatro India UN ESCHIMESE IN AMAZZONIA, terzo e ultimo spettacolo della TRILOGIA SULL’IDENTITÀ della rivelazione Liv Ferracchiati.Nel suo teatro si dibattono la scoperta e la costruzione del sé nella relazione con il mondo, una partitura artistica che mette in discussione ciò che è considerato “norma”. Con la sua compagnia The Baby Walk, l’artista e regista ha conquistato la scena nazionale attraverso La Trilogia sull’Identità, un racconto di storie ordinarie in cui il transgenderismo non è l’unico centro: il tema dell’identità viene indagato per interrogare la nostra natura di esseri umani, ma soprattutto di esseri liberi. UN ESCHIMESE IN AMAZZONIA, spettacolo vincitore del premio Scenario 2017, pone un confronto diretto tra la persona transgender (l’Eschimese) e la società (il Coro). Tutto parte da una citazione dell’attivista e sociologa Porpora Marcasciano che evidenzia l’incapacità della società di andare oltre il modello binario di sesso/genere, omosessuale/eterosessuale, maschio/femmina e che quindi racconta la compromissione di un percorso di vita che potrebbe essere dei più sereni e tranquilli. La società, dunque, segue le sue vie precise e strutturate, mentre l’eschimese improvvisa poiché la sua presenza non è contemplata. È un personaggio autentico, specchio della contemporaneità in cui vive, che prova ad avere una visione soggettiva, ma che in realtà è infarcita di luoghi comuni. «L’Eschimese, a un certo punto, afferma di essere stanco di parlare di identità di genere, per quanto sia importante farlo, semplicemente perché non c’è più nulla da dire – commenta Liv Ferracchiati – All’ inizio del mio progetto, pensavo ci fosse tanto da dire, molto da far capire. Poi ho compreso, nel corso della trilogia, che se si smettesse di cercare qualcosa da dire e ci si avvicinasse ad esso, il transgenderismo verrebbe percepito come una normale variabile della natura umana. Il teatro dovrebbe aiutare a capirlo e spero che la Trilogia possa sostenere tale processo di comprensione». Un lavoro moderno, dinamico, costruito sul nonsense tipico della illogicità internettiana, con una lingua ritmata, veloce, superficiale espressione del coro e quindi della società odierna. Un linguaggio basato sull’improvvisazione e perciò metafora verticale dell’esistenza dell’Eschimese e, in fin dei conti, di tutti. «Abbiamo lavorato soprattutto sulla musicalità ed è stato il testo che, insieme al tema di ogni “link”, suggeriva i movimenti del Coro. Per il terzo capitolo, infatti, si è trattato di una scrittura scenica collettiva a partire dalla drammaturgia testuale che scrivevo io durante le prove e che poi veniva verificata subito dopo. Abbiamo rinunciato al codice interpretativo sia per me, ossia per l’Eschimese, che si trova ad improvvisare e a giocare con un linguaggio che si avvicina alla stand-up comedy, sia per il Coro che parla all’unisono, che quasi si limita a dire e basta, senza intonazione, come un unico corpo agente e parlante. Diversamente i monologhi dell’Eschimese non sono mai stati scritti, ci sono degli appuntamenti prestabiliti, ma ogni volta tutto viene improvvisato da zero».