Già Pasolini, in tempi non sospetti, aveva inquadrato il nuovo potere globalista come «il più violento e totalitario che ci sia mai stato: esso cambia la natura della gente, entra nel più profondo delle coscienze». E non è un caso se si era spinto a parlare, con lucida lungimiranza, di «genocidio culturale». Mascherandosi dietro un multiculturalismo di facciata, che è solo la riproposizione infinita dello stesso modello politically correct, la civiltà globale in cui viviamo non accetta infatti differenze. Esiste un unico profilo consentito: quello del consumatore sradicato, indistinguibile dagli altri, senza identità né spessore culturale. Per usare le parole di Fusaro, il globalismo si fonda su un’inclusione neutralizzante: «in nome del mercato unificato, opera affinché ogni ente si muti in merce liberamente circolante, senza frontiere politiche e geopolitiche, morali ed etiche, religiose e giuridiche». In quest’ottica distorta, ogni tradizione è sacrificata sull’altare del finto progresso turbocapitalista, che vuole «non popoli radicati nella loro storia e nella loro terra, né soggettività dall’identità forte e capaci di opporre resistenza, bensì consumatori dall’io minimo e narcisista, con identità liquide, gadgetizzate ed effimere». Acquirenti indistinti cui vendere ovunque la stessa illusione. Come possiamo opporci a quest’imperante «eterofobia»? Recuperando e difendendo il valore della nostra identità, che si definisce solo nel dialogo con le differenze dell’altro. In questo saggio acuto e provocatorio, la voce critica di Diego Fusaro ci invita dunque a riappropriarci delle nostre radici; a rieducarci – e rieducare soprattutto i più giovani, condannati a un futuro precarizzato che rischiano di accettare supinamente – al «sogno di una cosa», come diceva Marx. All’immagine di un futuro meno indecente di quello che ci vede solo come merce tra le merci.