Sto entrando nella sede dei Radicali di Roma, dove alle 14 ho appuntamento con Marco Cappato. È la mia prima vera intervista e in questo momento non saprei chiedere nemmeno dov’è il bagno. A smorzare ulteriormente la tensione c’è il fatto che, dato il mio proverbiale tempismo, la decisione della Corte – che doveva giungere ieri – è slittata alle 14 di oggi. Realizzo di essere sul punto di intervistare una persona che potrebbe scoprire da un momento all’altro se farà la storia o 20 anni di carcere.
Nessuna pressione.
Marco Cappato è nella stanza dell’Associazione Coscioni, attorniato da legali e collaboratori. Sono tutti surrealmente spensierati e affabili, prima fra tutti Mina Welby, che nel giro di due minuti mi ha già invitato sia a Milano per un convegno sia a casa sua per consultare la libreria di Piergiorgio.
Cappato sorride, mi saluta chiamandomi per nome e mi chiede di iniziare subito l’intervista, che “la Corte potrebbe disturbarci da un momento all’altro”.
Vorrei iniziare chiedendole quale sia, secondo lei, la ragione per cui il governo – prima Gentiloni, poi Conte – si è costituito contro la decisione dei giudici milanesi. Lei crede che sia effettivamente, come dichiarato, per timore che possano generarsi lacune normative? O vi legge un altro genere di interesse?
Da una parte c’è sicuramente un’inerzia burocratica, che porta l’esecutivo a difendere l’esistente, in questo caso senza fare la necessaria valutazione in merito al fatto che l’esistente sia stato generato da un’altra era. Parliamo di leggi antecedenti alla Costituzione.
Qui io non so quanto deliberatamente il passato governo Gentiloni e, adesso, il governo Conte, abbiano voluto esprimere una posizione politica. L’avvocatura dello stato è stata prudente, chiedendo sì l’infondatezza, ma motivandola sostenendo che il giudice di Milano avrebbe potuto interpretare costituzionalmente la norma. Questo è un modo di nascondersi dietro il dito perché, una volta accaduto, si è chiamati a pronunciarsi.
Se questa fosse una mossa consapevole, sarebbe da ricondursi al fatto che in Italia c’è sempre il problema dei “buoni rapporti”con il Vaticano. Un Vaticano in verità sempre meno attivo rispetto al passato, nella volontà di tradurre in legge dello stato il dogma religioso. Poi ci sono altri poteri clericali che hanno un loro impatto e che certo non vedevano e non vedono di buon occhio la nostra battaglia.
Rispetto a questo, lei crede che vi sia ancora – e in quale forma, con quale impatto – un’influenza effettiva del Vaticano nella produzione di diritto positivo?
Le leggi sono ancora quelle, dunque l’influenza è nei fatti, nel senso che siamo ancora fermi a trent’anni fa. Nonostante questo Papa sia meno esplicitamente interessato alla traduzione in legge dei precetti religiosi, finché alcune leggi non vengono riformate, l’influenza del passato rimane. Un passato del 1930, dove la motivazione non era nemmeno una di diritto clericale, ma di stato etico, in cui il valore della vita individuale andava sempre sottoposto al benessere della nazione. Ora, questo è esattamente ciò che noi dobbiamo superare. Ovviamente servono delle regole per delimitare il perimetro, sia dell’istigazione, sia di ogni aiuto che sconfina nell’istigazione. Quello che va smontato è il carattere discriminatorio di una norma per la quale solo le persone che hanno contatti, conoscenze, soldi e condizioni di salute tali da poter procedere autonomamente procedono, mentre gli altri si trovano nell’impossibilità.
Ed è per ovviare a tale discriminazione, e per la volontà di estendere tutela giuridica a tutte le situazioni concrete che la meritano, che nasce la vostra iniziativa popolare per l’eutanasia legale. La proposta è stata depositata cinque anni fa, nel settembre 2013, ma non è mai stata discussa.
Mai. Ma è stata determinante sulla scorta dei casi Fabo, Velati, Fanelli, Davide Trentini, i più celebri che si sono succeduti in questi anni. Il parlamento ha scorporato la questione dell’eutanasia da quelle inerenti al testamento biologico e alla sospensione dei trattamenti, mettendo l’eutanasia su un binario morto e mai discutendola, avviando invece l’iter per le altre questioni, a mio avviso senza particolare convinzione. È stata poi la coincidenza con la fase finale del mio processo a Milano e un coinvolgimento forte dell’opinione pubblica ad aver impedito ciò che già stava accadendo, ossia che non vi fosse tempo per la lettura finale del Senato.
Dalla vostra proposta emerge la volontà di circoscrivere la possibilità di richiedere l’eutanasia ai soggetti maggiorenni che presentano patologie fisiche, escludendo l’estensione ai minori e ai soggetti affetti da patologie psichiatriche. È una formulazione che ritenete sufficiente e definitiva, o crede che un giorno la legge debba e possa essere integrata in tal senso? Avvenga questo in sede parlamentare o con correttivi successivi, sull’impronta belga.
L’iniziativa popolare è tale, in Italia, per cui se la legge arriva ad essere discussa può poi essere emendata. Dunque ciò che abbiamo cercato di fare è una legge che facilitasse l’inserimento all’ordine del giorno del tema, sapendo che per ampliare il campo di applicazione della legge – come a mio avviso sarebbe necessario – sono importanti il dibattito e l’esperienza. Il Belgio e l’Olanda hanno rivisto periodicamente leggi e protocolli sulla base di ciò che avveniva nella prassi, perché nella legalizzazione dell’eutanasia ci sono, come in ogni altro caso di politica regolatrice, dei rischi. La materia è molto delicata anche per noi, soprattutto per noi! Ma riteniamo che la legalità sia un quadro migliore della clandestinità per regolare un fenomeno. In materia di minori, l’aggiustamento belga proviene da una maturazione successiva e riguarda pochissime unità di casi all’anno, soggette a condizioni molto rigide, per casi realmente prodotti. Nonostante questo, il dibattito in Italia si è limitato al “genocidio dei bambini”, un’assoluta falsificazione della realtà. Figuriamoci se la nostra campagna sulla legge, invece di discutere dell’ampliamento di margini di legalità, avesse subito voluto proporre temi simili.
La sofferenza psichica, allo stesso modo della questione minorile, pone dei problemi di delicatezza particolare, perché un conto è una depressione curabile ed un altro è uno stato di sofferenza psicologica tale da essere equiparabile ad uno di sofferenza fisica. Ci sono dei disturbi congeniti che non derivano da eventi della vita, ed io ritengo che in quei casi le procedure dovrebbero poter consentire la possibilità di scegliere. Resta il fatto che la sofferenza psichica rischia di travalicare e compromettere l’ambito della volontà e della libera scelta, dunque ha bisogno di procedure con tempi e modalità che offrano più garanzie di controllo e verifica.
Diceva prima che la risposta dei media italiani all’approvazione del testo legislativo belga è stata uniforme nella condanna, con toni fortemente allarmisti ed emergenziali. Questo perché in realtà gli unici che ne hanno parlato sono stati i canali di impronta cattolica. Perché questo? Per quale ragione non c’è stato un dibattito e i principali canali laici di informazione italiana non hanno trattato la questione?
Ecco. Ancor prima che sul “perché” è innanzitutto da dirsi che questo è avvenuto in violazione delle leggi sul servizio pubblico. Dal caso Welby in poi, da 12 anni, noi chiediamo – abbiamo scritto al presidente della RAI, al presidente della commissione vigilanza – che ci siano dei dibattiti che prescindano dai casi singoli, mentre paradossalmente l’accusa che ci viene rivolta è quella di strumentalizzare i casi singoli. Ma ragazzi, parlatene! Benissimo! Dovrebbe esserci, nel formato del servizio pubblico per l’informazione radiotelevisiva, ragione a favore e ragione contro che si confrontano. È la negazione di questo confronto a distruggere il dibattito. Nella realtà oggi vediamo che, sul piano dei sondaggi, la legalizzazione dell’eutanasia è sempre più forte. Allora come si spiega che ci sia un consenso così forte in assenza di un confronto? Si spiega con il vissuto delle persone. Guardando Fabo, le persone hanno capito di che cosa si tratta. Perché l’hanno visto in relazione alla propria vita, al proprio familiare accudito, alla propria esperienza. La gente ha sempre meno bisogno di sentirlo dire in televisione, perché lo vive personalmente.
È questo, secondo la mia interpretazione, ciò che ha consentito – nonostante l’impronta allarmistica dell’informazione – un consolidamento dell’opinione pubblica disponibile all’ampliamento delle scelte di libertà.
Il vostro ruolo, e quello dell’opinione pubblica, hanno avuto un ruolo centrale nella formazione di una giurisprudenza in evoluzione, che si è poi tradotta nel contenuto della legge sul biotestamento. Alla luce di ciò che potrebbe accadere oggi, qual è la sua interpretazione di questo percorso?
Di graduale apertura. Si passa dal caso Welby – in cui il medico viene incriminato e poi prosciolto – al caso Englaro – in cui il padre viene autorizzato preventivamente – fino al caso Piludu, in cui addirittura il tribunale impone alla ASL di procedere. Il caso Piludu è già la legge sul testamento biologico.
Questa apparente giungla di complessità ha tre passaggi di semplicità che la legge raccoglie, lasciando però il campo ancora scoperto. Parliamo sia di persone non soggette a terapie salvavita, sia di chi – come nel caso di Fabo – non vuole interrompere le cure, sapendo di poter incorrere in otto o nove giorni di agonia. Sono questi i casi che rimangono fuori dalla regolamentazione, ed ecco il nodo politico e giuridico: possiamo noi accettare che il diritto a farsi aiutare dipenda dalla tecnica, attiva o passiva, del morire? Non dovrebbe dipendere dalla condizione soggettiva del malato?
Nei casi di un malato depresso o incapace, noi escludiamo l’aiuto a morire ed interveniamo per il sostegno. In caso contrario, se c’è l’autodeterminazione libera della persona, accompagnata da condizioni di malattia irreversibili e dolore insopportabile, allora lì si attiva la procedura. Bisogna far dipendere questo diritto non dalla tipologia di malattia e cura, ma dalla condizione soggettiva della malattia e della sofferenza per chi sceglie.
In un’intervista al Corriere della Sera di qualche tempo fa, lei disse che le giungono quotidianamente una o più richieste di assistenza. In quella sede aveva sostenuto di declinarne la maggior parte, o meglio, di reindirizzare le richieste verso altri tipi di terapia. Quale criterio utilizza?
Innanzitutto un primo indizio è come è fatto il messaggio. Se si è cioè in presenza di disturbi evidenti, che comunque difficilmente potrebbero ricevere il c.d. “semaforo verde” in Svizzera, mi limito ad indirizzarli verso un aiuto. Io non sono un medico, non so nemmeno se chi mi scrive dice o meno la verità, e non mi permetto di operare una mia autonoma valutazione. Anche nei casi di chi mi scrive per patologie fisiche, io suggerisco di farsi seguire sul piano psichiatrico, perché è utile. Se si decidesse poi di procedere, è meglio farlo in una condizione di serenità che in una di disperazione.
Cita spesso l’elemento dell’ironia.
Certo, è fondamentale. Se il racconto che mi viene fatto è un racconto di nero totale e solitudine, se sono persone che non parlano con le proprie famiglie, io cerco di spingerle a condividere con una persona di fiducia, che non posso essere io. Non sono uno psicologo né un medico, non sono nessuno e non pretendo di essere nessuno per loro. Io intervengo solo in pochissimi casi rispetto a quelli che mi vengono sottoposti – ad oggi 650 più o meno. Può succedere che le persone abbiano bisogno di sostegno economico o di essere solo accompagnate, ed è qui che inizia la condotta di disobbedienza civile.
Io cerco di capire quel che posso, e non lo faccio a cuor leggero.
Elena Pompei