“La mite”, in scena al Teatro dell’Orologio, è un piccolo gioiello che dà coraggiosamente voce alla muta sticomitia di un rapporto d’amore squilibrato, mai vissuto, violento proprio perché fatto di una cieca coazione a ripetere del dramma dell’incomunicabilità. Si tratta di
un racconto di Dostoevskij antecedente “I fratelli Karamazov”, ispirato a un fatto di cronaca che lo aveva molto colpito: il suicidio di una ragazza definito dai titoli di giornale un suicidio “mite”. Il testo originale presenta un uomo disperato, che vuole capire perché la moglie si sia uccisa attraverso una specie di lungo soliloquio nel quale ricerca le ragioni di questo atto disperato. Il riadattamento di César Brie mette invece virtualmente in comunicazione entrambi i protagonisti (interpretati da Clelia Cicero e Daniele Cavone Felicioni), connessi
ma al contempo scissi da una terza figura: la rappresentazione di lei defunta come pupazzo, muto fantoccio di una donna presente-assente tanto prima quanto dopo la tragica morte, a simboleggiare un ampio spettro di suggestioni e riflessioni sulla questione di genere. Lo psicodramma del marito, che non a caso fa l’usuraio (dei sentimenti), diventa così collettivo, facendo riverberare nello spettatore una considerazione individuale sulla problematicità più o meno latente di qualsivoglia amore sbagliato, dove si riconosce ancor meno se stessi e il proprio disagio di quanto non si conosca l’alto. Un attento e suggestivo utilizzo delle luci, unito a pochi elementi di scena (tre sedie e un tavolo), si fanno efficace veicolo per dare ampio spazio a una prossemica simbolica che non lascia nulla di intentato, a palesare un tormento prima di tutto fisico nella sua manifestazione. Si può dire che con questo lavoro César Brie dimostri ancora una volta una sensibilità profondissima,
messa al servizio di un teatro “umano”, la cui prerogativa resta sempre la semplicità in funzione di una riflessione fruibilmente condivisa, pur nel suo essere intima e personale.