Otto secondi è il tempo medio di concentrazione della nostra mente nei tempi dell’iperconnessione e
della dipendenza dagli smartphone. Una capacità di attenzione inferiore a quella di un pesce rosso. Ma come è possibile? Lisa Iotti, giornalista inviata di ‘Presa Diretta’, il programma condotto su La7
da Corrado Formigli, analizza questo fenomeno in ‘8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione’, il suo libro edito da Il Saggiatore (pp. 249, euro 19) nel quale cerca di dare alcuni consigli su come
liberarsi da questa schiavitù. Il suo è un viaggio, intimo e sconvolgente, nel lato oscuro della
rivoluzione digitale, attraverso le ossessioni, i pericoli e le paure che caratterizzano il nostro contemporaneo: dai laboratori in cui si
svolgono ricerche sul comportamento delle nostre reti neurali durante l’utilizzo di app alle stanze in cui vengono studiate le possibili trasformazioni posturali dovute all’uso degli smartphone; dai centri per curare le dipendenze psicologiche da cellulare ai ritiri in cui disintossicarsi dal telefono grazie alla meditazione; dagli incontri con alcuni dei più importanti studiosi della mente a quelli con i pentiti della Silicon Valley, diventati oggi profeti della disconnessione da social e device.
Tra reportage e narrazione personale, ‘8 secondi’ è
un’opera che nasce dalla necessità di trovare risposte alle nostre inquietudini e che finisce per aprirci a nuove domande e nuovi scenari. Nella prefazione datata giugno 2020 l’autrice spiega che il
libro era pronto per andare in stampa quando il mondo si è fermato per il Covid. Naturalmente anche la pubblicazione del volume si è fermata,
“devo dire, con un mio sospiro di sollievo – scrive la Iotti – perché uscire con più di duecento pagine di critica a smartphone e pc nel preciso momento storico in cui tutti – causa lockdown – sopravvivono
in pratica grazie a smartphone e pc, sarebbe stata una bizzarra scelta di marketing”.
Ma in realtà è stato proprio in quel periodo di isolamento, in cui tutto avveniva tramite ‘connessione’ attraverso gli smartphone, in cui
il flusso di notizie sulla pandemia inondava i nostri telefonini, che l’autrice si è resa conto di non capire più niente: “Mi sentivo come se un minipimer tesse centrifugando il mio cervello. Ero del tutto incapace di mettere un argine a quello scroll ossessivo e, nello stesso tempo, non riuscivo a processare la quantità infinita di informazioni che la rete rigurgitava a getto continuo sul virus non
avendo più nessuno strumento cognitivo per distinguere l’essenziale dall’irrilevante”. Il libro ha assunto così un altro significato, quello di raccontare cioè “quelli che saremo diventati quando la pandemia sarà un ricordo”.