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Metà desiderio e metà insoddisfazione, “Villa Dolorosa” al Vascello interpreta lo schianto della speranza

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Cosa succede quando l’esistenza si ferma sulla porta di casa? Cosa succede quando, di fronte a una vita che sembra trascorrere senza niente di eccezionale, tutto ciò che si ha di fronte muta, ma in peggio?

“Tre sorelle”, al Teatro Vascello, un testo di  Rebecca Kricheldorf, spettacolo di Roberto Rustioni, con Federica Santoro, Roberto Rustioni, Eva Cambiale, Carolina Cametti, Emilia Scarpati Fanetti, Gabriele Portoghese,  è una rilettura del lavoro di Anton Pavlovič Čechov. Una sorta di riepilogo di una condizione che non viene mai a mancare: l’insoddisfazione.

Si faccia un salto indietro, nel IV secolo avanti Cristo, Aristotele scriveva che: «È nella natura del desiderio di non poter essere soddisfatto, e la maggior parte degli uomini vive solo per soddisfarlo».

Di tutto la pièce , la cifra identificativa è appunto il “desiderio”. Quello radicale, quello pulsionale, quasi libidico. Il desiderio di essere un artista da parte del fratello, di diventare qualcuno per la sorella maggiore, di essere felice per la sorella di mezzo, e di “essere” per la sorella che compie gli anni.

Il fratello Andrèj è sempre in bilico: condannato ad attendere una epifania di successo che tarda ad arrivare, di lui si può ben scrivere come già fece Jules Renard: «Non essere mai soddisfatti: tutta l’arte è qua».

Altra forma di insoddisfazione sono le sorelle. Il trittico della perfetta pantomima di una vita passata a desiderare. A volere, in maniera patologica, qualcosa che sembra essere sempre dietro l’angolo ma che, ancora e ancora, si lascia sfuggire.

Una fuga, una perenne fuga dalla realtà. Dell’insegnante ad esempio, che come disse Balzac delle donne lontane dall’amore, si può descrivere con queste parole: «Le donne, quando non amano, hanno tutto il sangue freddo di un vecchio avvocato». In effetti, la più grande delle tre è sempre quella che, pur nei fumi dell’alcol, mantiene una parvenza di razionalità. Cinica e senza pietà.

Poi c’è la condannata all’amore e quella che invece non vuole crescere mai. Insomma, una perfetta sintesi di una disgrazia psicologica, tutta riunita in una sola villa.

Attorno a questa triadica sciagura ruotano due satelliti: la fidanzata, moglie di Andrèj e madre, e Georg. Una una condanna, l’altro una benedizione. Due poli opposti, due raffigurazione episodiche di una possibile libertà, Georg, e di una sicura condanna, lei.

La pièce è una perfetta rappresentazione di uno spazio scenico spirituale non solo disincarnato, che ha messo al bando qualsiasi emozione sana e costruttiva, ma è anche una raffigurazione schematica del percorso del fallimento. Ogni personaggio rappresenta un passaggio, una stazione di una via crucis della speranza che finisce inesorabilmente dentro la morte dell’amore della più piccola.

Nemmeno il bambino di Andrèj allevia il senso di oppressione che si respira. Non esiste, è fuori tempo e fuori dello spazio della vita.

Chi potrebbe portarla, Georg, è anche lui un rifugiato della patria del dolore. Insomma, la condizione di grigiore diventa la satira di una intuizione: l’intuizione di una felicità possibile purché non si diventi così.