Attentati a Parigi - 13 novembre 2015
Attentati a Parigi - 13 novembre 2015

di Dario Sanchez

Eccoli i numeri impressionanti della serie di attentati coordinati messi a segno da Daesh in alcuni luoghi simbolo della movida parigina: a trasformarsi in un inferno di sangue e fuoco il ristorante, la discoteca, gli ingressi adiacenti allo stadio. Simboli del quotidiano, luoghi della spensieratezza e del divertimento. Non più sicuri.

Numeri impressionanti, ma non nuovi. Non in Medio-Oriente, dove appena la scorsa settimana lo Stato Islamico ha presentato con le sue telecamere al mondo l’ennesima strage di innocenti: almeno 200 bambini fucilati da un pugno di miliziani mentre erano riversi a terra, le mani legate dietro alla schiena con uno spago. Non in Israele: dove le discoteche e i pub di Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme hanno smesso di saltare solo innalzando un muro.

E ora Parigi, nonostante le insegne illuminate, i viali curati e alberati, le vetrine addobbate come alberi di Natale, assomiglia un po di più a Raqqa, Damasco, Beirut, Tripoli e la Gerusalemme dei tragici anni ’90.

“Serve la strategia”. Manca la strategia.
Per anni gli europei si sono illusi di non essere in guerra, mentre i loro aerei bombardavano nella nebbia barbe e turbanti lontani e molto telegenici. Troppo lontani per fare davvero paura all’opinione pubblica, e troppo radicati a un territorio vasto e ricco di risorse per poter pensare di debellare la minaccia con i soli bombardamenti aerei, senza prevedere alcun intervento di terra e andando a mescolare nel torbido di ambigue e mercenarie milizie dalla mentalità feudale.

A giocare a favore della costruzione di questo senso di sicurezza artificiale è stata la mancanza di un fronte di guerra interno: un fronte interno che, a differenza degli statunitensi, gli europei prima d’oggi non hanno mai avuto modo di sperimentare in maniera così forte, non dalla fine della seconda guerra mondiale.

Un fronte interno che purtroppo ora c’è – alimentato dagli effetti collaterali di un’immigrazione incontrollata, malgestita e non integrata – e che inevitabilmente imporrà un cambiamento radicale nel mondo di vivere dei parigini, dei francesi e in prospettiva di tutti gli europei, a cominciare da una riforma dell’intelligence, da un maggiore impiego di risorse nella formazione di personale militare e di polizia specializzato e da un ripensamento profondo delle politiche di immigrazione e di frontiere aperte.

L’Europa ha molto da chiedere e da imparare dall’unico Paese democratico e di forte impronta occidentale che ha il triste primato di vivere sotto l’attacco del terrorismo autoctono e internazionale fin dai primi anni della sua nascita, e che, nonostante questo è riuscito a mettere a punto strategie in grado di farne un esempio di lotta al terrorismo senza stravolgere la sua natura liberale e democratica. Questo Paese si chiama Israele. Un Paese che – come tutte le democrazie – a volte sbaglia. Ma che a differenza di Daesh e delle altre centrali del terrorismo internazionale non ha verità assolute da imporre al mondo, ma la ferrea volontà – al pari dell’Europa – di vivere libero e in pace.