Malgrado l’immaginario collettivo abbia preteso di riconoscere in Giovanni Boccaccio (1313-1375) “un autore libertino, anticristiano, divertito e divertente narratore di vite alle quali Dio appare estraneo, lo scrittore di Certaldo ha voluto con la sua opera compiere un’operazione di tipo pastorale: insegnare a uomini e donne come ci si debba comportare, come si persegua la virtù, come si riconosca il male, come si scelga il bene. Poiché lo ha fatto attingendo a piene mani alle più importanti discussioni teologiche, possiamo affermare che egli è scrittore e teologo”. E’ questa la tesi espressa da Antonio Fatigati nel suo ultimo saggio intitolato “Boccaccio teologo. Per una rilettura del Decameron” (Mauro Pagliai
Editore, pp. 128, euro 13) e arricchito da una prefazione di Alessandro Ghisalberti.
Fatigati, diacono permanente della Diocesi di Milano, ha conseguito il dottorato in Teologia – Studi biblici presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale con una tesi dedicata proprio a Giovanni Boccaccio, autore di quelle cento novelle che intorno alla metà del XIV secolo consegnarono il suo nome alla storia della letteratura. Le vicende narrate nel Decameron, che riescono ad appassionare ancora oggi perché prossime alla vita quotidiana del lettore di ogni tempo, sono espressione di una profonda riflessione religiosa. Boccaccio è infatti, assieme a Francesco Petrarca, il maggiore esponente di quegli autori eredi di Dante che consideravano la poesia e la teologia come una sola cosa.
“Per Boccaccio – spiega Fatigati – la poesia agisce come lo Spirito Santo, e non svela immediatamente le verità sottese per non togliere loro quel valore che esse hanno, valore che risalta quando l’uomo è costretto a impegnare il proprio intelletto per comprenderle. Ai poeti spetta così pienamente il titolo di teologi”.