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Enrica Brescia, la fotografa d’acciaio e sorriso

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BinRome intervista per la prima volta la giovane emergente fotografa romana. Dall’amore per la fotografia, a quello per il compagno, alla passione della ricerca, alla presenza fondamentale della sorella e della famiglia. Una passeggiata nel giardino privato di una artista.

Incontriamo Enrica Brescia, la giovane – ma non per questo ingenua – fotografa romana a Piazza Flaminio.

Il perché è presto detto, da brava lavoratrice vuole concedere l’intervista – del resto le serve seriamente essere ri-conosciuta anche sul piano intellettuale, oltre che pratico – ma deve anche lavorare. Infatti, per la chiacchierata mi concede giusto il tempo pre-vespertino, tra l’aperitivo e la cena, dopo essere passata a prendere dei lavori in copisteria.

E come darle torto? Primum vivere deinde filosofare. Prima bisogna mangiare. Ed Enrica sa perfettamente cosa vuole e come ottenerlo.

Inizia la nostra conversazione – seduti uno di fronte l’altro, a un bar, mentre tutto intorno una fiumana di turisti, lavoratori dai pantaloni attillati, ci passa intorno.

“Ho iniziato tutto questo principalmente per gioco – mi dice mentre prende con la mano sinistra dal piattino screziato sul tavolo un piccolo pezzo di pizza e se lo porta alle labbra – sto morendo di fame – dice accennando un sorriso che le muore subito sulle labbra -, ma voglio darmi un contegno…”

“Ah guarda, io pure sto morendo di fame…”

Abbattuta quindi ogni ultima parvenza di civiltà, ci lanciamo entrambi su quei pochi viveri che il cameriere del bar ci ha concesso insieme a un bicchiere di succo e uno spritz.

“Insomma, ti dicevo che ho iniziato principalmente perché lavoravo molto al computer. Io nasco con una specializzazione grafica. Ma poi ho preso un’altra strada”.

Intanto le pizzette drammaticamente cominciano a finire e le persone intorno a noi cambiamo viso e fisionomia. Il sole comincia a diventare sempre più un ricordo e dalla villa alle sue spalle, insieme agli autobus, scende anche un refolo fresco che fa un male…

Le chiedo il perché della scelta di occuparsi di ritratti. “Scelgo le facce – mi risponde – perché dalle facce ovviamente capisco molto”.

 

E qui rischiamo di andare sul banale, quasi sul “già sentito”; in fondo, quale fotografo non inizia una metafisica discussione sul significato del volto e degli occhi e delle labbra e del seno e della pancia e dei piedi.

Qui per fortuna no. Vuoi che forse non sappia cosa sia il significato di “volto” per Emmanuel Levinas, vuoi che forse, effettivamente, non gliene freghi veramente molto, sta di fatto che la risposta di Enrica mi piace.

“Mi hanno sempre affascinato gli sguardi – e fino a qua siamo sul normale, penso – la fotografia dei volti mi permette di guardare gli altri senza effettivamente starli troppo a guardare”.

E la scena diventa surreale.

Una fotografa che ama immortalare i visi delle persone, perché non riesce a guardarli. In fondo è una forma di terapia, aggressiva se vogliamo, e di terapia e fotografia con lei ne parleremo fra poco.

Ma mi colpisce che Enrica abbia il coraggio di mostrare una parte di lei così intima in modo cosi subitaneo, come a indicare: “guardate sono così e non posso farci niente”, o meglio “non mi interessa farci molto”.

“La macchina fotografica diventa il mio occhio”, dice lei. E anche qui sento un pericoloso odore di stantio. Ma ritorna subito a spiegarmi quanto per lei il volto di una persona sia un mistero di fronte al quale preferisce mettere uno specchio dal quale lei possa controllare tutto. E io lo trovo interessate. Vuoi per la profonda misantropia che mi porto dietro, vuoi per la dimensione surreale ma onesta di chi ammette al primo incontrato che “sì d’accordo sono una fotografa, però questo non significa che mi piacciano le persone”.

Di paesaggi, mi dice, se ne è occupata parecchio ma non la affascina. Non le piace fotografare quel tipo di soggetto, così come non è attratta dallo sport. E nemmeno la mobilephoto.

E sul nudo emerge la forza prepotente di una educazione tutta romana: la vergogna. Cattolica non so se lo sia o meno. Pudica non ho capito quanto lo sia. Sta di fatto che ammette “il nudo mi coinvolge, ma a volte mi ci faccio prendere e …”. Sorriso. “Insomma, meglio di no”.

“Beh – faccio per provocarla -, si può sempre farci l’amore con i soggetti e poi si passa al lavoro”. Dico io, sornione. E lei: “Lo fanno, lo fanno; ma a me non interessa, non è il mio stile. E poi ho un ragazzo che adoro e voglio sposare, quindi no”.

Ecco, passiamo alla sua vita privata. “Si sono fidanzata, da un sacco di tempo”. E si illumina. “Ci siamo prima osteggiati, e poi ci siamo amati. Un po’ un cliché banale ma è così. Abbiamo studiato insieme e poi, durante una sfida scolastica, ci siamo avvicinati”.

Si fa fotografare, le chiedo? “No, non gli piace”.

Ma la vera emozione gliela leggo in faccia quando può parlare della famiglia. Perché della famiglia vi chiederete? Tutti quanti hanno ovviamente una storia. Ma come possiamo capire una persona senza arrivare prima alle sue radici, anche quelle più intime.

“Mia madre ha SEMPRE creduto in me”. E scandisce tutta la frase come se avesse un metronomo di fronte. “Mio padre, come tutti i papà, ha un ruolo di distanza, e so che va bene così, ma sai… conosco il suo linguaggio; basta un cenno e capisci che è sempre fiero di me ma non lo dice”.

Ma la vera musa, la sola e unica persona per la quale lei prende fuoco è sua sorella. Una presenza costante di tutta la conversazione, come il Commendatore di Don Giovanni, senza che io in realtà lo avessi capito in origine. Ho avuto una epifania solo dopo. Quando ho messo insieme i pezzi per l’intervista, scrivendo.

La sorella è sempre stata al tavolo con noi. Lei se la porta sempre nel taschino. Come monito e come suggeritore. Come supporto e come nemico.

“Mia sorella è la persona che ha creato questa mostra. Senza di lei non posso andare avanti”. Penso sia una esagerazione da sorelle, ma forse no…

“Lei è la musa che mi dà la forza. Non saprei cosa fare se dovessi andare avanti con la mia arte senza la presenza costante di una persona così”.

E da vero postulatore di una causa scontata mi immagino una sorella materna più grande e già ammogliata e invece ecco che ti spunta una ragazza giovanissima. Perbacco penso, chi è mai questa Brunilde che già galoppa verso il Valalla delle certezze.

La guardo in fotografia. È oggettivamente bella ma mi sembra di capire che dietro il viso a la Vogue ci sia una persona molto più complessa di una pagina in A4. E infatti Enrica me lo conferma, e capisco che senza sua sorella Enrica Brescia sarebbe solo una fotografa, mentre con lei è una fotografa che si interroga e non si arrende. Dovremmo avercelo tutti uno sponsor così.

Sua sorella è comunque una storia tutta a sé.

Torniamo a parlare della fotografia come terapia. Lei ci tiene: “Io stessa ho scoperto il potere curativo delle foto, e con me anche le mie modelle e miei modelli che si sono scoperti più belli dopo lo shooting”. Strana forma di terapia quella basata esclusivamente sull’amore incondizionato di sé e di un po’ di photoshop. Però sono i misteri della pische e dell’obiettivo.

Dello stile di Enrica ne parleremo dopo la mostra. Qui eravamo interessati alla persona che sta dietro la macchina fotografica. E ammettiamolo, la scoperta è stata interessante.

 

Crediti fotografici: Enrica Brescia