Richter Fine Art è una nuova Galleria d’arte che ha esordito a Roma con lo spazio espositivo dal titolo “Non amo che le rose che non colsi”. L’intento della Galleria è quello di opporsi alla cultura del ready-made e di mostrare di come si ancora possibile “fare quadri”. Allo spazio espositivo sono presenti cinque artisti: Silvia Argiolas, Dario Carratta, Giuliano Sale, Emilio Leofreddi e Luca Grechi. Di fondamentale importanza è la discordanza di stili pittorici che contraddistingue gli autori a dimostrazione di come si possa, ancora, parlare di una pittura non morta. Il tema centrale è quello che riguarda il rapporto tra l’uomo e la conoscenza. Tra il pensiero e l’essere, il dilemma esistenziale primo di porsi un interrogativo sull’Assoluto, sul Senso. Non a caso il titolo della esposizione rimanda all’idea di voler attingere a ciò che è velato: il contenuto di verità delle opere d’arte. Questa tensione e questa interrogazione sul Senso è manifestata in carattere di protesta nei lavori di Silvia Argiolas, Giuliano Sale, Emilio Leofreddi e Luca Grechi, mentre in carattere narattivo nei lavori di Dario Carratta. In quest’ultimo caso, ad essere messa in evidenza, è la condizione ascetica della vita che conduce al Nirvana, si, esattamente al nulla, lo stesso nulla che caratterizza la comprensione delle opere d’arte ogni volta che sfuggono alla presa dell nostro desiderio di totalità comprensiva.
Dall’altra parte le opere degli altri artisti rappresentano paradossalmente il desiderio di onniscienza, come pulsione che muove qualsiasi indagine speculativa metafisica, ma allo stesso tempo svelano la stessa verità che Carratta mette in evidenza: ogni volta che ci avviciniamo a cogliere il Senso di un’opera d’arte esso sfugge, si modifica nel tempo e rimane sempre velato. Allora sarà forse il caso di affermare che il Senso non esiste? Il Senso è nulla? Ebbene si, è necessario cambiare l’approccio d’indagine al reale; bisogna assimilare la consapevolezza dell’insensatezza. Nell’osservare “Fan girls Amy” o “The Wrong Turkish Bath” riecheggia l’impresa picassiana de “Les demoiselles d’Avignon”, l’idea che l’arte deve terminare di essere epifanica, disvelatrice, ma essere autonoma e autoriflessiva. Addio, quindi alla prospettiva, alla ricerca della Bellezza, di attingere alla perfezione, nella consapevolezza dell’ insensatezza che contraddistingue la realtà. Ed è quindi la capacità delle opere di attuare uno scambio di sguardi con il soggetto osservatore a svolgere un ruolo fondamentale nella comprensione che è la fine di ogni esperienza epifanica, totalitaria e disvelatrice.
C’è un brano di Dostojevski nel suo romanzo “L’idiota” ,personaggio che non simbolizza la stupidità, ma voleva raffigurare una persona estremamente buona e rappresenta un modello di Don Chisciotte, la bontà è che, non tenta di spiegare gli altri ma, di comprenderli. Ippolit ,l’anarchico, tenta di suicidarsi con una pistola ma la pistola non funziona e tutti provano a spiegarsi il perché e lo stesso principe Myškin ci prova e Aglaja, una delle sue donne, replica chiedendogli come è possibile che anche lui cerchi di “spiegare l’uomo”. Se si attua uno scambio di sguardi come il dialogo lo scambio non avrà mai fine. Quindi comprendere e non spiegare è la nuova consapevolezza dell’arte che lo spazio espositivo vuole mettere in evidenza. Una conoscenza che infinita, autoriflettente e accompagnata dalla speranza, dall’utopia che un giorno le cose cambino che si possa dare una Verità assoluta, un Senso ultimo che si possa cogliere la totale conoscenza e si possa soddisfare a pieno la pulsione vitale umana: il desiderio di conoscenza. Come diceva Adorno “le opere d’arte sono promesse di felicità” e in questo senso in un mondo dilaniato dalla completa insensatezza, dopo Auschwitz e l’atomica, l’opera d’arte si presenta come speranza riconciliatoria tra pensiero ed essere.