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Maria Pizzi: tra realtà e finzione allo Spaziottagoni

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Il dolore degli oggetti”. Questo il titolo con il quale Maria Pizzi presenta la sua mostra personale alla Galleria RvBArts

Il tema fondamentale è la morte, rappresentata attraverso i mezzi artistici più idonei secondo l’artista. Una delle sue preoccupazioni maggiori è che, attraverso un’accurata indagine, si possa ulteriormente allontanare la morte piuttosto che renderla onnipresente nel mondo dei vivi. Infatti basta un nulla affinché la realtà diventi finzione.

Maria Pizzi, mostrando la “sofferenza degli oggetti“, riesce a innescare un dialogo tra il mondo dei vivi e quello dei morti; anche ciò che non è vivente, soffre. Nell’osservazione, infatti, sorge spontaneo un quesito: se ciò che si osserva è realmente morto, che rapporto simpatetico c’è tra ciò che vive e ciò che non vive più? Ci si serve molto spesso dell’arte per potersi avvicinare alla sensazione che dà della morte, di ciò che non è; ma se invece l’arte ci mettesse di fronte alla vera e propria consapevolezza della morte? Se ci permettesse di vedere e sentire la morte come, invece, una parte integrante e costitutiva della vita? E’ questo che propone l’arte moderna, come una sorta di rivoluzione copernicana che parta dalla consapevolezza che la morte non è altro da sé; come direbbe l’artista in questione “la mort c’est moi“.

La Pizzi, così come E.Manet in “Le Balcon” (1868), lavora sull’eliminazione della prospettiva che, non a caso, è il primo elemento che scatena la possibilità che il reale entri nel lavoro artistico, facendosi così altro dal reale stesso. Si strania. Dalla prospettiva nei lavori artistici, si passa quindi alla fotografia. Quest’ultima sembrerebbe essere il punto di arrivo di una certa arte che permette alla realtà dentro sé stessa, quasi per osmosi.

Il reale è contraddistinto da “esistente e non esistente”, da ciò che è vivo e ciò che è morto, e l’uno e l’altro non possono esistere se non in relazione. 

Nella fotografia il contenuto non passa attraverso la “banale”forma, ma è un puro spettacolo per i nostri occhi. Questo è ciò che è accaduto per gli scatti risalenti all’11 settembre, per quelli della bomba atomica e per moltissime altre fotografie e filmati che superano la spiegazione storico-politica, istaurando una competizione tra realtà e finzione. Così facendo, la realtà viene rappresentata con la solo finzione perchè è l’unico modo affinchè la realtà possa parlare, essa eccede. La Pizzi si oppone a questa operazione, che corre l’inevitabile rischio di allontanarci dalla domanda sulla “non esistenza degli oggetti” e di come loro, da morti, sappiano parlarci proprio allo stesso modo dei viventi. 

Un lavoro, quindi, contrario a ciò che ad oggi la fotografia è diventata, che le restituisce il ruolo lodevole di farci sentire una realtà che mantenga il suo statuto ontologico (esistenza e non esistenza); dove la realtà diventa finzione si corre il rischio di mascherare l’insensatezza che contraddistingue il mondo che, invece, è il punto di partenza di ogni indagine speculativa proprio sul Senso, sull’Assoluto.

Se da questi oggetti fuoriesce una sofferenza, allora, il fatto che essi siano percepiti come veri, si tratta di finzione o realtà? C’è la possibilità che essi non abbiano mai smesso di esistere, o è la sola presa artistica in grado di garantirci quest’effetto? 

Una mostra che merita di essere visitata e contemplata. Non è facile rispondere a questo interrogativo. La risposra potrebbe uperare la soglia del “percepibile umano”; noi possiamo constatare “il sentire qualcosa di esistente da qualcosa che non esiste” e, partendo da questo, almeno restituirci a noi la consapevolezza che la morte incarna, costituisce il reale, lo penetra e non è possibile parlare di esistenza senza la premessa della non esistenza. Ed ora? Ecco, se poi il sentire la non esistenza sia reale o finzione, è tutto da scoprire attraverso gli occhi di ognuno di noi e dello spettatore che si fa osservatore e meditatore.