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Gabriele Lavia in “Otello” a Firenze

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Una tragedia ‘privata’, una parabola che parla di gelosia, scontro di civiltà, di razzismo ed emarginazione. Ma Otello è anche, grazie all’arcana creazione shakespeariana di un personaggio come Iago, l’inquietante cronaca di un malvagio condizionamento psichico, nel ritratto di un’Italia esotica e proverbialmente passionale.

Gabriele Lavia, che ha già affrontato l’Amleto, lo scorso 18 giugno nel Cortile del Bargello, con una ‘maratona’ di quasi quattro ore, entusiasmando il pubblico nel pieno del ‘gioco’ del palcoscenico (specchio fedele di una realtà sfuggente e difficile da interpretare), incontra venerdì 15 luglio, ore 21.15, al Castello dell’Acciaiolo di Scandicci, il fascino dell’Otello. Una delle opere più famose di Shakespeare, per via della sua perfetta bipolarità, del suo fatale strutturarsi attorno a due caratteri o, per dir meglio, a due enigmi esistenziali tanto diversi quanto complementari, Otello e Iago.

“La prima regia che ho fatto nella vita è Otello”, afferma Gabriele Lavia, “Shakespeare è un autore fondamentale per me. A differenza di Amleto, Otello non è in grado di porsi il problema dell’essere come del resto neanche Re Lear o Macbeth. Sono figure che si trovano all’interno del turbinio della questione dell’essere o non essere, ma non riescono a concepirlo né a dirlo”.

Dopo gli allestimenti scenici del ‘75 (il debutto alla regia) e del ‘95, Lavia pensa ora a Otello come a una tragedia della mente, coi suoi fantasmi e i suoi simulacri, tragedia di anime reiette e dannate: da un lato il ‘Negro Otello’, discriminato antropologicamente come razza inferiore, mostruosa, bestiale, culturalmente come barbaro, metafisicamente come non eletto, privo di anima, creatura infernale, diavolo; dall’altro il ‘Bianco Iago’, a sua volta discriminato socialmente per gli insuccessi nella sua vita militare, moralmente represso, vittima di un puritanesimo eccessivo che proietta sul Moro tutto il ‘peggio’ che si porta dentro, con tormento.

“Nessuno è davvero libero, siamo incatenati, prima di tutto, all’essere e poi anche al nostro corpo”, prosegue il regista e attore, “la libertà non esiste realmente: è solo un’aspirazione. Aspirare alla libertà, questo è essere liberi. Cercare di non accettare le proprie schiavitù è il massimo grado di libertà da vivere”.

Otello diventa così il dramma dell’Io diviso che vive con dolore la sua doppia identità di barbaro e di civilizzato. Otello è statuario, quasi totemico, alterna toni maestosi a impennate selvagge nei trasporti amorosi, la sua gelosia si rintana sotto il letto, plagiato da Iago, un groviglio di strazianti contraddizioni, che riesce nel difficile esercizio di rendere la fragile patetica credulità del ‘diverso’.

“Non ho risposte da dare”, conclude Gabriele Lavia, “la vita non è una risposta, anzi: vivere l’esistenza vuol dire porsi delle domande. Più un individuo è cosciente della propria vita, più si interroga. Non ci sono risposte, piuttosto sono le domande ad affollarsi”.

venerdì 15 luglio, ore 21.15 | Castello dell’Acciaiolo, Scandicci

Fondazione Teatro della Toscana